Le insegne toponomastiche a
Venezia sono del tutto particolari. Sono chiamate "ninzioleti"
(pronuncia "ninsioleti") cioè piccole lenzuola (il lenzuolo
infatti in veneziano si dice "ninziolo" e si legge "ninsiolo").
Sono costituite da riquadri rettangolari in malta, tinteggiati di
bianco (originariamente in calcina) con una cornice dipinta in nero,
con pennello a mano libera con l'aiuto di un'asse di legno.
I caratteri sono dipinti con l'aiuto di forme di latta in cui sono
sagomati (dime) e l'abile dipintore sa disporli "ad occhio"
in modo da centrare le scritte e riempire simmetricamente il "ninzioleto".
I nomi sono riferiti alla tradizione veneziana: a Venezia non
troveremo una "via Dante" oppure una "piazza
Verdi" e naturalmente, tranne rare eccezioni, non abbiamo
"vie", "viali" e "piazze", bensì
"calli", "campi" e tanti "ponti".
Se
la calle è la strada principale, una calle laterale, secondaria, a
volte senza uscita, è chiamata "ramo".
Alcune indicazioni toponomastiche vicino
alla Basilica dei Frari
ci rimandano ad un santo, S. Nicoleto (si pronuncia facendo quasi
non sentire la "elle": "san Nicoeto").
Naturalmente non si tratta di un S. Nicoletto, ma di S. Nicola di Bari,
con le varianti di Nicolò, Niccolò, e conosciuto anche come S. Nicola di
Myra (italianizzata in Mira), antica città greca nei pressi della quale sorge
oggi l'attuale Demre in Turchia.
S. Nicolò era un santo molto importante a Venezia, città marinara,
perché era considerato il protettore dei naviganti contro i pericoli del
mare ed uno dei protettori della flotta della Repubblica. Non solo, a
Venezia si conservano anche alcune reliquie del corpo di San Nicola,
trafugate nel 1099-1100 da Myra e che erano state trascurate una decina
d'anni prima dai marinai baresi che si erano impadroniti delle spoglie del
santo.
Le reliquie veneziane sono conservate nella chiesa di San Nicolò del
Lido, già eretta in onore del santo precedentemente al recupero delle
reliquie.
Ma la chiesa del Lido non è l'unica dedicata a San Nicola a Venezia.
Un'altra si trova sulla punta estrema della città, rivolta verso l'antica
foce del fiume Brenta: si tratta della chiesa di San Nicolò dei Mendicoli.
San Nicola, protettore contro i pericoli del mare, ma anche protettore dei
viaggi per acqua. Infatti come San Nicolò del Lido si trova vicino
alla bocca di porto che conduce dalla laguna al mare aperto, così San
Nicolò dei Mendicoli è posta sulla direttrice che dalla terraferma porta
alla laguna lungo il Brenta, sulle cui sponde, vicino al confine con il
padovano, esiste un'altra chiesa dedicata al santo, San Nicolò di Mira, a
testimonianza dell'importanza che avevano i barcaioli che con i loro "burci"
(ed il "burchiello" è il più famoso) portavano le
persone a Venezia. Proprio per la titolazione di quella chiesa, il paese
di Cazoxana prese l'attuale nome di Mira.
Ma a Venezia c'è, anzi c'era, un'altra chiesa dedicata al santo di Myra,
quella di San Nicolò di Castello, che faceva parte di un complesso che
comprendeva un ospedale destinato a ricovero per vecchi marinai poveri,
invalidi o infermi. E nella chiesa, dedicata al protettore della gente di
mare, era presente un altare della Scuola (una specie di confraternita) di
San Nicolò dei Marinai. La chiesa non c'è più demolita e rasa al suolo
con tutto il resto per lasciare spazio al progetto napoleonico di ricavare
un giardino pubblico.
In
un particolare della pianta di Venezia realizzata da G. Merlo nel 1676
si individua il Convento di S. Nicoletto della Lattuga (il nome è
scritto sul tetto dell'edificio frontale). La chiesa è indicata con
una semplice croce all'angolo inferiore sinistro del chiostro.
Ma nessuna di queste chiese
dedicate a San Nicola di Myra ha qualcosa a che fare con i due "ninzioleti"
che si trovano vicino alla Basilica dei Frari.
I quali ugualmente hanno un riferimento con una chiesa dedicata a San
Nicola, ma le cui origini sono diverse e certo non usuali.
La chiesa che sorgeva vicino al convento ed alla chiesa dei Frari era
chiamata appunto con il diminutivo "San Nicoleto" per
distinguerla dalle più importanti chiese veneziane di San Nicolò del
Lido, San Nicolò di Castello e San Nicolò dei Mendicanti.
Era chiamata anche "San Nicoleto dei Frari", per la vicinanza
con la basilica, ma soprattutto tra il popolo era conosciuta come
"San Nicoletto della Lattuga".
Il motivo di questo appellativo è piuttosto curioso e legato alla sua
fondazione.
La chiesa venne fondata nel 1332 dal Procuratore di San Marco Nicolò Lion,
lo stesso che nel 1355 avrebbe scoperto la congiura ordita dal Doge Marino
Falier.
Il Lion volle fondare questa chiesa, che dedicò al Santo del quale
portava il nome, come gesto di riconoscenza per la guarigione miracolosa
che aveva ottenuto grazie a certe erbe colte dagli orti dei frati di S.
Maria Gloriosa.
Così ci racconta l'episodio lo scrittore veneziano Giuseppe Tassini (12
novembre 1827-22 dicembre 1899).
Un
particolare dell'incisione del padre Vincenzo Coronelli (1650-1718)
per il suo "Singolarità di Venezia, Chiese di Venezia"
(circa 1709). Si nota, in basso a destra, il convento con il chiostro
di San Nicoletto della Lattuga ed il campanile della chiesa. Dietro,
nella parte alta del disegno, gli orti dei frati.
La
tomba di Nicolò Lion, originariamente nella chiesa di San Nicoletto
della Lattuga, venne poi trasferita
nella Basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari.
Narrano
che, aggravato da fiera malattia, il patrizio Nicolò Lion, Procuratore di
S. Marco, quel medesimo che scoprì la congiura di Marin Faliero, desiderò
una notte di mangiar della lattuga e che, non trovandosene altrove, attesa
l'ora assai tarda, poté averne dall'orto dei padri di S. Maria Gloriosa.
Riavutosi in breve con questa singolar medicina, fece in segno di
gratitudine erigere presso l'orto medesimo una chiesa, ed un piccolo
monastero, che si dissero di S. Nicolò o S. Nicoletto della Lattuga.
Nicolò Lion morì nel 1356 e fu sepolto nella "sua" chiesetta di
S. Nicoletto della Lattuga. Dopo la soppressione della chiesa a seguito
dei decreti napoleonici dei primi anni dell'Ottocento, nel 1807 l'arca funebre
di Nicolò Lion venne trasportata nella vicina Basilica dei Frari e
collocata sulla parete destra della cappella dei Santi Francescani (la terza
cappella da sinistra del transetto della chiesa) dove ancora oggi si trova.
La chiesa ed il piccolo convento vennero costituiti nel 1332 sotto lo "jus
patronato" dei Procuratori di S. Marco "de ultra".
In esecuzione del testamento di Nicolò Lion, del fu Domenico, del 13 febbraio
1353 "more veneto" (corrispondente al 13 febbraio 1354), i
frati minori cominciarono a erigere in parte del terreno che era confinante
con gli orti, a ridosso del chiostro di S. Antonio, detto anche chiostro
"interno", il piccolo convento di S. Nicoletto della Lattuga
destinato ad anziani benemeriti.
Il conventino ebbe un primo ampliamento verso la fine del Trecento mentre la
chiesetta, che in origine aveva tre altari, subì un radicale
rimaneggiamento nel Cinquecento: negli anni 1533-35 Tiziano dipinse la
grande pala dell'altar maggiore (m. 2,70x3,88) rappresentante la Madonna in
gloria con il Bambino tra angeli con S. Caterina, S. Nicola, S. Pietro, S.
Antonio, S. Francesco e S. Sebastiano.
Un restauro venne effettuato a partire dal 1561, la chiesa ebbe cinque altari
e subito si arricchì di opere d'arte di gran valore di Paolo Veronese che
vi lavorò appena prima del 1582.
La guida "Il Forestiero Illuminato intorno le cose più rare e
curiose, antiche e moderne della Città di Venezia e dell'isole
circonvicine" (Venezia, edizione 1784) scriveva che la chiesa di S.
Nicoletto della Lattuga possedeva «...un tesoro di pitture antiche dei più
celebri autori.»
Altri autori che vi lasciarono le loro opere, per ricordarne alcuni, furono
Carletto e Benedetto Caliari, rispettivamente figlio e fratello minore di
Paolo Veronese, Marco Vecelio, cugino di Tiziano, che lavorava nella sua
bottega, Jacopo Palma il Giovane, il Pittoni, il Fiumani ed altri.
Nel 1583 S. Nicoletto si arricchì di un coro ligneo che possiamo
immaginare di grande importanza, visto l'autore: Girolamo da Feltre.
Nel 1582 il vescovo di Chioggia Marco Medici consacrò la chiesa di S.
Nicoletto e per l'occasione il convento viene restaurato ed abbellito.
Attorno al 1660 il convento fu ingrandito sopraelevandolo di un piano, poi
nel 1746 un incendio ne distrusse gran parte. Tuttavia venne rifabbricato e
qualcuno scrisse «più bello di prima.»
Nel convento di San Nicoletto della Lattuga probabilmente studiò dialettica
e filosofia negli anni 1458-61 padre Urbano Dalle Fosse, detto il Bolzanio
(1442-1524). Vi ritornò trentenne nel 1472 e poi ancora sul finire del 1489
per aprirvi una celebre scuola di greco che ebbe allievi che sarebbero
diventati famosi, come il poeta umanista Benedetto Lampridio, lo storico
Marcantonio Coccio detto il Sabellico, Gaspare Contarini che sarebbe
divenuto cardinale.
Padre Urbano compilò la prima grammatica greca composta interamente in
latino, che fu la prima composta da un umanista italiano: venne stampata da
Aldo Manuzio nel gennaio 1498. "Institutiones Graecae grammaticae"
ebbe una larghissima diffusione libraria: Erasmo da Rotterdam nel 1499 si
lamentò di non poterne trovare altre copie. Se ne susseguirono le edizioni
fino ad una terza in nove tomi della quale però padre Urbano non vide la
stampa: terminato il manoscritto un anno prima della sua morte, uscì
postuma nel 1545 ed ebbe 23 riedizioni.
Padre Urbano non fu solamente un "grammaticus", ma anche un
letterato: descrisse l'itinerario nel mondo classico ed orientale, un
viaggio che durò undici anni e che lo condusse in Grecia, Palestina, Arabia
ed Egitto, tradusse e commentò Omero ed altri poeti greci. Presso il Museo
Civico di Belluno si conservano una sua traduzione delle Lettere di
Falaride, di due Orazioni di Isocrate e delle Favole di Fedro.
Fu ritratto da Tiziano, suo amico e conterraneo cadorino quando Tiziano
frequentava i Frari per dipingere
l'Assunta. Padre Urbano amava la botanica e si era ricavato un angolo
per sé nell'orto frutteto dietro al convento di S. Nicoletto dove coltivava
le piante rare che aveva raccolto durante i suoi viaggi. Ormai anziano si
ruppe persino una gamba cadendo da un albero che stava potando.
Morì ad 82 anni, presumibilmente il 26 aprile 1524. Il 27 aprile infatti
gli furono fatte le esequie nella chiesa di S. Nicoletto della Lattuga, dove
venne sepolto; l'orazione funebre "Oratio habita in funere Urbani
Bellunensis" fu pronunciata dal suo allievo Alberto di Castefranco
e l'epigrafe commemorativa fu dettata dal nipote Pierio Valeriano: oggi è
visibile all'esterno della cappella Corner (o di S. Marco) sulla destra
della porta.
Padre Urbano Dalle Fosse fu Superiore del convento di S. Nicoletto dal 1514
al 1520.
La pala d'altare dipinta da
Tiziano per la chiesa di S. Nicoletto della Lattuga tra il 1533-35. Si
tratta dell'unica opera del Tiziano in possesso della Pinacoteca dei
Musei Vaticani, riprodotta malamente anche in due francobolli di quello Stato.
Gli successe per 12 anni consecutivi, dal 1521 al 1533, padre Germano da
Casale, il quale era stato più volte Guardiano dei Frari, teologo mariano,
amante dell'arte, amico di Tiziano dal quale si fece fare la pala
dell'Assunta per la chiesa di S. Maria Gloriosa e la Madonna in gloria con
il Bambino e santi per S. Nicoletto della Lattuga..
I
due francobolli dello Stato della Città del Vaticano che riproducono
malamente la pala del Tiziano.
Padre Germano aveva ricevuto il Magistero in Teologia nel maggio 1488, nel
1497 era stato vicario dell'inquisizione al convento dei Frari e poi
Guardiano dei Frari per sette anni non consecutivi, tra il 1502 ed il 1518.
Passato al convento di S. Nicoletto, venne eletto Ministro provinciale del
Santo (28 maggio 1525-ottobre 1528). Morì a S. Nicoletto il 1° dicembre
1533.
Proveniva dal convento di S. Nicoletto della Lattuga, nel quale si era
formato, il veneziano padre Federico Lauro Barbarigo, che fu Ministro
generale tra il 1783 ed il 1789. Poi, in applicazione dei decreti di Napoleone dell'8
giugno 1805, 24 e 30 marzo 1806 riguardanti la soppressione delle chiese
"superflue", vennero chiusi la chiesa di S. Nicoletto ed il
convento, che venne abbandonato dai frati il 27 settembre 1806 per
trasferirsi nel vicino convento dei Frari.
Si cominciò al saccheggio ed alla spogliazione delle opere d'arte che vi
erano conservate e che erano state descritte da autori come il Sansovino
(nel 1581), il Ridolfi (nel 1648), il Martinioni (nel 1663), il
Boschini (nel 1674), lo Zanetti (nel 1771) e dalle prime guide del
Settecento.
Infatti il governo del Regno Italico non aveva predisposto alcun piano
razionale sull'utilizzo degli edifici e dei beni delle comunità soppresse,
e tanto meno alcun progetto di salvaguardia del patrimonio artistico; si
limitò a consegnare tutto al Demanio. Questo, di fronte all'improvviso ed
abbondante arricchimento del proprio patrimonio, pensò bene di vendere al
miglior offerente. Ma di fronte dell'enorme quantità di beni messi in
vendita non c'era un mercato in grado di assorbirli. Molte aste andarono
deserte. Si passò quindi alla trattativa privata in un clima di disordine e
confusione altissimi e di disinteresse totale, da parte del Demanio, per gli
aspetti artistici e storici. In pratica si trattò di svendite fatte spesso
a persone di pochi scrupoli, i soliti affaristi e traffichini, da parte di
funzionari non completamente disinteressati.
Senza contare le ingerenze e le pretese dei militari che avanzavano
richieste di disporre di spazi, edifici, caserme, magazzini: infatti per un
certo tempo il convento di S. Nicoletto venne destinato dai francesi, come
quello dei Frari, a caserma.
L'adorazione
dei Magi dipinta per S. Nicoletto poco prima del 1582 da Paolo
Veronese con l'aiuto della sua bottega ed in particolare del fratello
minore Benedetto Caliari.
A sovrintendere per conto della Municipalità la destinazione che avrebbero
avuto i quadri fu delegato, sotto il Regno Italico, Pietro Edwards, che era
stato per oltre 22 anni ispettore alle Belle Arti e segretario perpetuo
dell'Accademia ai tempi della Repubblica di Venezia. Edwards aveva inoltre
curato il restauro di tutte le più importanti tele presenti in Palazzo
Ducale.
Pur essendo persona di grande esperienza e di un certo equilibrio, aveva
delle opinioni personali che oggi ci farebbero inorridire, ma probabilmente
erano frutto del gusto dell'epoca e del momento storico.
Nonostante le disposizioni del Viceré avessero posto dei divieti sulla
vendita dei quadri, Pietro Edwards realisticamente prevedeva che sarebbero
durate poco e così «...centinaia e migliaia di pittoriche meschinità, che
non dovrebbero sortir dalle tenebre se non per passare alle fiamme, e che
poste di nuovo in circolazione, accresceranno vieppiù la corruttela del
gusto, infirmeranno gli sforzi pubblici pel suo raddrizzamento, ed occupando
tanti posti ad esclusione degli attuali artisti toglieranno ad essi lo
stimolo ai loro studi...».
Edwards era contrario alle vendite in massa di opere d'arte perché «...la
massa grandissima di tante pitture poste in vendita costì e negli altri
Dipartimenti di tutto il Regno ha invilito, ed invilirà sempre più questa
merce fino alla nausea, per non dire alle lacrime.»
Ma il compito dell'Edwards fu solo quello di esaminare tutte le opere
pittoriche per scegliere quali, tra le migliori, dovevano essere spedite a Parigi,
alla Corona, e quali dovevano essere destinate al Demanio.
Compito al quale si applicò intensamente, lasciandoci oggi un «Prospetto
generale delle pitture esaminate» comprendente tre elenchi di
complessivi 12.791 quadri: di molti di questi quadri si sono perse le
tracce.
S.
Nicolò accolto vescovo di Mira che Paolo Caliari, detto il Veronese,
dipinse per il soffitto della chiesa di S. Nicoletto della Lattuga
poco prima del 1582, anno della consacrazione. La tela, che risulta
mutilata ai lati, è diventata circolare ed ha un diametro di cm. 198.
Nella classificazione l'Edwards divise i quadri in differenti
"classi": nella prima e nella seconda c'erano i «quadri
antichi, scelti in modo da esemplificare la storia della Scuola Veneta»,
nella terza e nella quarta i dipinti riservati alla Corona e destinate ai
palazzi reali, a Brera e successivamente anche alle Gallerie di pittura istituite
presso l'Accademia e ad altre gallerie pubbliche.
Certo che restarono anche delle bizzarre convinzioni nell'Edwards: tra i «Quadri
più triviali, e tele inutili» inserì un'opera di Francesco Guardi
raffigurante tre Santi a grandezza naturale che giudicò «...di
pochissimo merito» e neppure degno di essere restaurato.
Ed ancora: moltissimi quadri erano stati dipinti per essere ospitati in
strutture architettoniche particolari (chiese, conventi, ecc.) alle quali
dovevano adattarsi e quindi assumevano forme a volte irregolari o
particolari. Questo fatto indispettiva l'Edwards quando una di queste opere
doveva essere collocata in appartamenti (ad esempio quello del Viceré) o
stanze di uffici pubblici e mal vi si adattava. Ed allora il suo
suggerimento era di operare tagli e mutilazioni che avrebbero potuto
concorrere anche ad un miglioramento estetico dell'opera!
Un esempio è dato dal Veronese qui a destra, proveniente dal soffitto di S.
Nicoletto della Lattuga, che fu mutilato ai lati «Sarei d'opinione che
si dovessero tagliare le parti laterali (...) al fine di ridurlo a
forma migliore».
L'Edwards aveva anche una certa antipatia per gli stemmi inseriti nei quadri
e li faceva raschiare via, spesso togliendo a noi oggi la possibilità di
avere dei riferimenti circa i committenti dell'opera.
I
quattro evangelisti riconoscibili dai loro attributi iconografici
(dall'alto a sinistra, in senso orario, Matteo, Marco, Luca e
Giovanni). Dipinti poco prima del 1582 per il soffitto di S. Nicoletto
della Lattuga, furono eseguiti, secondo le fonti, da Paolo Caliari,
detto il Veronese; tuttavia secondo gli storici dell'arte egli si
sarebbe fatto aiutare ampiamente dalla sua bottega ed in particolare
dal fratello Benedetto.
L'Edwards dunque esaminò le opere pittoriche della chiesa e del convento di
S. Nicoletto: su 62 ne destinò 28 alla Corona; tra queste l'intero ciclo di
Paolo Veronese che si trovava sul soffitto mentre il Battesimo di Cristo,
sempre del Veronese, fu destinato a Brera. Vi erano opere della sua scuola,
del figlio Carletto e del fratello minore Benedetto, di Jacopo Palma il
Giovane, una Crocifissione che l'Edwards attribuì a Donato Veneziano e
ancora Alvise dal Friso e le portelle dell'organo dipinte da Paolo
Fiammingo.
L'Annunciazione di Palma il Giovane, che non era compresa tra i quadri destinati
a Parigi, il 9 novembre 1809 andò ad abbellire l'ufficio del presidente
della Corte Civile e Criminale dell'Adriatico.
A questo punto è necessaria una piccola notazione, una piccola parentesi:
in tutti gli elenchi di opere d'arte che sono conservati presso l'Archivio
di Stato di Venezia, compresi gli elenchi dell'Edwards, le ricevute di
consegna dei quadri, le distinte del contenuto dei «cassoni» che venivano
spediti, ecc., non figura mai la pala che il Tiziano aveva dipinto per l'altar
maggiore.
Che fine aveva fatto? Come è giunta alla Pinacoteca dei Musei Vaticani?
La pala era già stata venduta nel Settecento in un periodo in cui la
gestione economica del convento di San Nicoletto era stata alquanto
disinvolta: nel 1770 venne acquistata da papa Clemente XIV per il
palazzo pontificio del Quirinale, dove tuttavia non sarebbe mai stata esposta
per essere ospitata invece a S. Pietro in Montorio
e da qui, nel 1797, inviata a Parigi. Nel 1820 è entrata infine a far parte della Pinacoteca Vaticana ai tempi di Pio VII.
Diligentemente Anton Maria Zanetti (1706-1778) nel suo "Della
Pittura Veneziana e delle Opere Pubbliche de Veneziani Maestri" del
1771 già non cita più come presente questa opera del Tiziano, mentre la
troviamo, evidentemente per errore, elencata nel 1797 nel I Tomo (pagina 231
e seguenti) de "Della pittura
veneziana, trattato in cui osservasi l'ordine del Boschini e si conserva la
dottrina e la definizione dello Zanetti", Venezia 1797.
Nel
particolare di questa mappa del 1821 della Parrocchia dei Frari,
accanto alla sagoma della chiesa (visibile nel lato destro) si
riconoscono i due chiostri (l'esterno, o della Trinità, e l'interno,
o di S. Antonio). A sinistra di quest'ultimo c'è un numero (91).
Nella legenda «Spiegazione dei Numeri» troviamo scritto: «91.
Locale della Chiesa, e Monastero di S. Nicoletto dist.o» ("dist.o"
sta per "distrutto"). La tavola, dedicata «A Sua Eccellenza
la N. D. Chiara Pisani Barbarigo Dama di Palazzo di S.M.I.R.A. e
dell'insigne ordine della Croce Stellata», è contenuta ne
"Iconografia delle trenta Parrocchie di Venezia pubblicate da
Giovanni Battista Paganuzzi. MDCCCXXI", incisioni in rame
(Venezia, 1821).
La spogliazione non fu solo di quadri, ma anche di ogni oggetto, statua,
argenteria, paramento e oggetti sacri, che si trovava. In certe chiese venne
venduto persino il pavimento.
Il 25 novembre 1807 andarono venduti all'asta alcuni effetti della chiesa di
S. Nicoletto. Il falegname Paolo Bembo fece una perizia che elencava molti
lavori in legno contenuti nella chiesa: gli splendidi dossali lignei
intagliati da Girolamo da Feltre, spalliere, banconi, il coro in noce, la
cantoria in legno di abete, armadi e parapetti della sacrestia. Furono
venduti il 10 marzo 1809 per lire italiche 94,16.
Non si deve dimenticare che, oltre a quadri, statue, paramenti ed oggetti
sacri, S. Nicoletto possedeva nel convento una notevole biblioteca.
Anche a questa non fu riservato un destino migliore: in un rapporto redatto
il 6 giugno 1808 dal perito bibliografo Giovanni Rossi all'Ispettore
Generale delle Finanze fu segnalato che essa aveva subito «notevolissimi
spogli». Tuttavia, tolti gli scarti, quello che restava riempì
nove casse di libri che vennero inviate a Padova alla Direzione Generale del
Demanio. Secondo l'esperto Rossi i volumi migliori erano circa 120, quelli
mediocri «non da scartare» 900: vi erano «oltre a qualche opera
profana, parecchie magnifiche edizioni assai ben conservate di Opere di
Santi Padri...», inoltre «tre o quattro quattrocentisti non comuni» ed
«un solo manoscritto in pecora, ma non raro».
Quattro anni dopo ancora esistevano «scarti» nella biblioteca
dell'ex convento se il bibliotecario della Marciana, l'abate Jacopo Morelli,
il 13 novembre 1812 scrisse al Demanio per ottenere (e la sua richiesta
venne esaudita il giorno dopo) «...un fascio di varie carte
(geografiche) scompagne ed imperfette» per riparare un globo del
padre Coronelli che si conservava alla Marciana. Per beffa del destino quel
padre Coronelli, che fu padre generale dell'Ordine dei minori conventuali,
era stato geografo, cosmografo, ingegnere idraulico, precursore degli
enciclopedisti del Settecento ed aveva compiuto i suoi studi anche in quella
biblioteca di quel convento di S. Nicoletto, forse consultando quelle
medesime carte geografiche «scompagne ed imperfette».
Si giungeva così al 1812, un anno chiave per i destini di Napoleone segnato
dalla disastrosa campagna di Russia. La marina inglese aveva chiuso
l'accesso al porto di Venezia e presto ci sarebbe stata la discesa
dell'esercito austriaco. L'inverno del 1812 era stato terribile ed aveva provocato
una carestia; in più ci si era messo anche un terremoto che aveva colpito
il Friuli occidentale.
Il
conventino di S. Nicolò della Lattuga come è oggi, ripreso da una
foto aerea. Tre ali ed il cortile interno sono occupati dall'Archivio
di Stato di Venezia, la quarta (nell'inquadratura quella superiore
verso destra) dal 1925 è stata assegnata ai frati di S. Maria Gloriosa dei Frari
dove attualmente risiedono.
La popolazione pativa la fame. Fu allora, nell'agosto 1813, che sull'onda
del bisogno il podestà Bartolomeo Girolamo Gradenigo scrisse una lettera
riservatissima al direttore del Demanio Antonelli per chiedergli la
temporanea consegna di sei edifici, tra cui S. Nicoletto, per trasformarli
in mulini per far fronte alle necessità alimentari della popolazione a
seguito del blocco cui la città era sottoposta.. Non se ne fece nulla anche
perché la situazione stava precipitando passando dallo stato d'assedio (21
ottobre 1813) ai tumulti di piazza ed infine all'armistizio di
Schiarino-Rizzino (16 aprile 1814) con il quale Venezia veniva riconsegnata
agli Asburgo.
Furono così gli anni delle demolizioni: in 52 anni di dominazione austriaca
fu costruito poco o niente, ma in compenso sparirono un'infinità di opere.
Il 4 luglio 1825 veniva data in deposito alla Casa di Correzione (carcere)
nell'isola della Giudecca una tela di S. Nicoletto, con tanta
superficialità che se ne sbagliò anche il nome dell'autore (una Andata al
Calvario dell'Aliense invece di un Cristo che porta la Croce di Alvise dal
Friso).
Il S. Francesco che riceve le stimmate di Paolo Veronese, assieme ad altre
tele di S. Nicoletto, nel 1838 partì per la "K .u. K. Akademie der Bildenden
Künste" di Vienna (faranno ritorno a Venezia al termine della
Prima Guerra Mondiale).
Con la politica austriaca delle demolizioni, vennero portate avanti quelle
già decise ai tempi del Regno Italico ed altre vennero fatte: sparì così
la chiesa di S. Nicoletto della Lattuga ed oggi a ricordarla restano solo
due "ninzioleti" stradali.
Il ponte
in ferro dell'Accademia, opera di Alfred Neville. I pezzi del ponte
erano stati fatti arrivare via mare dalle sue fonderie nel nord Europa
ed assemblate a Venezia. Dopo quest'opera Alfred Neville si convinse
della convenienza di insediarsi in città, rilevando l'unica fonderia
di una certa importanza che c'era, quella di Teodoro Hasselquist.
Ma se la storia della chiesa finisce con la sua demolizione, sopravvive,
seppure in modo diverso, quello che una volta era chiamato il conventino.
Dal 1807 gli archivi della passata Repubblica di Venezia erano stati
disseminati in modo abbastanza disordinato in differenti edifici: nell'ex
convento di S. Giovanni in Laterano, nella ex Scuola di S. Teodoro, nella
chiesa di S. Provolo, poi si erano aggiunti nel 1811 cumuli di documenti
trovati nascosti nelle soffitte del Palazzo Ducale e della Basilica di S.
Marco. Diventava sempre più urgente trovarvi una sistemazione.
Si deve all'intervento di un uomo di grande cultura ed esperienza se venne
trovata una soluzione. Jacopo Chiodo non solo era stato nominato imperial
regio archivista e direttore dell'archivio governativo giacente presso l'ex
Scuola di S. Teodoro: era stato infatti archivista anche ai tempi della
trascorsa Repubblica di Venezia. La sua idea fu quella di utilizzare i 298
ambienti dei due conventi di S. Nicoletto e dei Frari, ormai soppressi e che
i francesi avevano usato come caserma, per ordinare in un unico complesso
tutte le carte prodotte in secoli di governo veneziano. Quei locali, una
volta tra i centri culturali-religiosi più attivi della città, sarebbero
potuti diventare nuovamente depositari di storia e di cultura.
L'imperatore Francesco I d'Asburgo fu l'altra anima della costituzione
dell'archivio negli ex conventi di S. Nicoletto e dei Frari: convinto della
necessità di costituire un "Archivio generale Veneto" trovò in
Jacopo Chiodo la persona competente e di prestigio che poteva farlo
decollare. Competenza da una parte ed autorità dall'altra poterono vincere
una certa burocrazia finanziaria asburgica che invece non vedeva di buon
occhio il progetto.
Così con aulico rescritto del 13 dicembre 1815 venne istituito l'Archivio
generale Veneto.
I conventi vennero restaurati ed in parte adattati a ospitare gli atti
emessi dalle magistrature della Repubblica di Venezia, l'archivio notarile
e tutti gli archivi delle corporazioni religiose che erano state soppresse.
Dietro i due chiostri di S. Maria Gloriosa e quello di S. Nicoletto si
estendevano gli orti dei frati, giungendo fino al rio delle "Muneghete"
(da "muneghe", monache, con riferimento alle Agostiniane di
Gesù e Maria) ed a quello della Saccheria.
Orti antichi (già citati in un testamento del 1271) famosi per la ricchezza
di piante ed alberi da frutto: fichi, vigne, gelsi, peri, meli, susini oltre
che di erbe officinali con i quali i frati facevano i loro composti di
erboristeria per la "spezieria".
Nel 1851 su una parte di quest'area (tra l'abside della chiesa di S. Rocco
ed il rio della Saccheria ed in parte adiacente alle mura degli ex conventi)
venne a sorgere una fonderia «pella fusione di ferro e metalli
nell'apposito forno» per l'iniziativa di Teodoro Hasselquist, di
origine svedese.
Il
cortile della fonderia di Alfred Neville a ridosso degli ex
conventi dei Frari e di S. Nicoletto in una foto del 1894: si nota la parte absidale
della chiesa di S. Rocco con il campanile ed in fondo sulla
sinistra il campanile dei Frari. (Foto
di Tomaso Filippi, 1852-1948, Fondo Tomaso Filippi, Archivio
storico IRE, Venezia).
La piccola fonderia ebbe ad ampliarsi col tempo e cambiò di proprietà
presumibilmente all'inizio del 1858, quando subentrò la famiglia di origine
inglese di Alfred Neville.
Da questa fonderia uscirono ponti in ferro, ringhiere, lampioni, padiglioni, ma anche vasti progetti come quello di
portare l'acqua potabile a tutta la città con un acquedotto in ferro. Ad
Alfred Neville si devono,tra l'altro, due ponti in ferro sopra il Canal
Grande, quello dell'Accademia del 1854 e quello di fronte alla
chiesa degli Scalzi nei pressi della stazione ferroviaria del 1858.
Nel 1867 vi lavoravano 67 uomini 20 fanciulli (di età inferiore ai 14
anni).
L'ingresso dello stabilimento era in calle S. Nicoletto.
La presenza del forno così vicino all'ex convento, che ormai era diventato
Regio Archivio, e l'ammassamento del carbone proprio sotto il muro di
confine, sollevava ripetute rimostranze da parte dei funzionari
dell'Archivio: così nel 1879 fu fatto obbligo di spostare il deposito del
carbone ad una distanza di almeno otto metri.
Ma non erano queste le difficoltà che attraversava l'industria Neville: era
sempre più difficile approvvigionare lo stabilimento posto nel cuore della
città delle materie prime necessarie; era sempre più difficile trasportare
prodotti sempre più voluminosi per mezzo delle scarse attrezzature del
porto; era aumentata la concorrenza di altre industrie metalmeccaniche.
Presso
l'attuale abitazione della comunità dei frati di S. Maria Gloriosa
dei Frari c'è questa porta: una volta apparteneva al conventino di S.
Nicoletto della Lattuga.
Dopo lunghe trattative con il Comune di Venezia, l'area che, in parte, era
stata dei frati di S. Nicoletto e di S. Maria Gloriosa, che poi era diventata
l'area della fonderia E. G. Neville & C., venne acquistata
dall'amministrazione pubblica per 266.872 lire e 92 centesimi. A metà 1908
tutti i fabbricati della fonderia erano già stati demoliti per lasciar
posto alla costruzione di case popolari.
Una "calle de la Fonderia" ricorda il luogo dove per mezzo secolo
sorgeva l'industria di Hasselquist prima, di Neville poi.
Finalmente a 112 anni di distanza da quando erano stati costretti a lasciare
S. Maria Gloriosa, i frati minori conventuali poterono ritornarvi il 25
giugno 1922. Dopo un lungo carteggio con il governo italiano i frati (era
padre Guardiano Vittore Chialina) nella primavera del 1925 ottennero un'ala
del fabbricato che era stata dell'antico conventino di S. Nicoletto della
Lattuga (pianterreno e due piani) con il diritto di passaggio e di passeggio
nel giardino (che una volta era stato quello del noviziato) per poter
accedere alla sacrestia della Basilica.
Per ripristinare l'antica tradizione dello Studio dei Frari, il 13 settembre
1925 in quelle stanze si aprì un collegio liceale, poi uno studio
filosofico-teologico destinato a chierici studenti minori conventuali, con
una presenza fino al 1949 di frati studenti tra i 20 ed i 25. Gli ultimi tre
studenti di teologia completarono l'intero corso teologico frequentando il
Seminario patriarcale fino al 1952.
Oggi quell'ala che era stata del conventino di S. Nicolò della Lattuga
ospita il convento dell'attuale comunità di frati minori conventuali di S.
Maria Gloriosa.