Tra i tanti possibili percorsi che
si possono fare all'interno della Basilica dei Frari, che costituisce una
vera e propria raccolta di importanti opere d'arte, qui ne proponiamo
uno: quello mariano.
Senza trascurare alcune notazioni e sottolineature che si incontrano
durante la visita.
L'interno
della Basilica dei Frari: un "septo" marmoreo che racchiude
il coro ligneo preclude la vista della zona del transetto e degli
altari.
Il percorso all'interno della
Basilica che qui proponiamo è solo uno dei tanti possibili.
Il suggerimento è quello di soffermarsi un momento appena oltrepassato
l'ingresso per ammirare la prospettiva e godere della vista della pala
dell'Assunta del Tiziano dietro l'altare maggiore inquadrato perfettamente
dentro l'arco del Crocifisso che completa il discorso proposto dal "septo"
marmoreo.
Già dall'ingresso, appena entrati, ammirando la struttura dell'edificio
possiamo cogliere alcuni messaggi che ci hanno lasciato i frati.
Cominciamo a guardare l'impianto della chiesa: la pianta può sembrare
abbastanza irregolare per la presenza di alcune cappelle che furono
aggiunte al corpo principale e per lo "sfondamento" di quella
maggiore, ma sostanzialmente ci troviamo di fronte ad una pianta a croce
egizia, a forma di "tau".
La "tau" era l'ultima lettera dell'alfabeto greco, la
lettera con cui sono segnati gli eletti, quindi è simbolo di salvezza. Ma
soprattutto la "tau", associata alla croce, era il
simbolo prediletto da S. Francesco che si firmava con una croce a forma di
"tau"; non solo, la forma della "tau" è
anche la forma della tonaca dei frati minori (composta nelle sue tre
parti: tunica, maniche e coccolla) ed a forma di "tau"
era il bastone con il quale si sosteneva S. Francesco e con il quale
compì miracoli, come ci racconta la "Legenda aurea" di
Jacopo da Varagine.
Possiamo osservare che, quasi dappertutto, i gradini sono tre: quelli per
accedere a molte cappelle laterali, quelli alla base dei pilastri delle
colonne. Si tratta di un chiaro riferimento alla Trinità.
Le colonne che sorreggono l'edificio sono dodici: infatti come queste
colonne in pietra sostengono l'edificio materiale della chiesa, così i dodici Apostoli
sono le dodici colonne su cui poggia la Chiesa fondata da Cristo.
Continuando ad osservare queste colonne, si può notare come alcune
abbiano una forma diversa: sono quelle destinate ad accogliere il coro
ligneo; è evidente come già costruendo la chiesa i frati avevano ben
presente dove collocarlo.
La base delle colonne è di forma ottagonale, così come quella dei
capitelli in alto dei pilastri: il numero otto simboleggia i sette giorni
della Creazione più l'ottavo giorno, quello della Redenzione, la nuova
Creazione, quella che Cristo ha donato attraverso il suo sacrificio: Gesù
è talvolta indicato anche come "il novello Adamo": come Adamo
è stato il primo uomo, così Gesù è stato l'uomo nuovo, con la sua morte attraverso
la quale ha donato la salvezza all'umanità ristabilendola nell'amicizia
con Dio.
Il
"septo" è interrotto al centro da un arco che sostiene una
"déesis" con un Cristo crocifisso in legno: inquadrato
dall'arco si scorge l'altar maggiore con dietro la pala con l'Assunta
del Tiziano.
Entrati in chiesa, ci viene
indicato il cammino del cristiano, che è quello che percorriamo anche noi
in questa prima parte.
Siamo entrati dal mondo esterno attraverso il portale principale della
Basilica; siamo condotti a meditare sui simboli che abbiamo visto lungo il
percorso e ci avviciniamo ad un muro che quasi ci divide, ci sbarra la
strada, dal resto della Basilica: è il "septo"
marmoreo del coro.
Opera dovuta a mani diverse, alcune non estranee alla scuola lombardesca,
altre forse provenienti d'oltralpe di non facile individuazione, racchiude
l'esterno del coro e, databile nel 1475, è successivo a quest'ultimo.
Qui i frati ci lasciano altri messaggi, come ad esempio i due pulpiti
posti alle due estremità del "septo" in alto: dal
pulpito si predica e la presenza di ben due pulpiti ci fa capire che siamo
in una chiesa conventuale, in una chiesa destinata alla predicazione, non
più una predicazione vagante o errante, ma una predicazione dentro la
Chiesa.
In quattordici riquadri, a destra ed a sinistra del grande arco centrale,
ed in altri quattro posti sulle fiancate sono rappresentati i busti in
rilievo dei profeti e dei patriarchi: sulla fiancata di sinistra Samuele
ed Habacuc, su quella di destra Isacco ed Ezechiele; sul lato principale
(procedendo dall'alto e da sinistra): Abramo, Davide, S. Giovanni
Battista, Enoch, Giona, Giacobbe, Eliseo, Daniele, Geremia, Zaccaria,
Mosè, Elia ed Isaia. L'ultimo, in basso a destra, non è né un profeta
né un patriarca: si tratta infatti del procuratore della chiesa Giacomo
Morosini che reca il nastro con la scritta «Solo Deo honor et gloria».
I
busti dei profeti sembrano uscire da degli arbusti, con riferimento al
Salmo 91: «Il giusto fiorirà come una palma». A sinistra Isacco, a
destra l'unico personaggio che non è né un profeta né un patriarca:
Giacomo Morosini, procuratore della chiesa.
Tutti i diciotto busti sono effigiati come se stessero sopra arbusti con
ciuffi di foglie, a ricordare il Salmo 91 quando dice «Justus florebit
sicut palma»(«Il giusto fiorirà
come una palma»). Il Giusto per eccellenza è Cristo, custodito nel
ventre di Maria ed i profeti (l'Antico Testamento) sono coloro che ci
promettono la Sua venuta. Si tratta di un'iconografia piuttosto ovvia,
almeno a Venezia: solo ai Frari la vediamo nel Padre Eterno sopra la
cornice esterna della porta della cappella Corner e nel coronamento della
tomba del beato Pacifico nel transetto destro (ma a Venezia anche nel
portale principale della chiesa di S. Stefano e nel coronamento gotico
degli arconi superiori della Basilica di S. Marco).
Continuando ad osservare il "septo" notiamo due riquadri
diversi posti sotto i due pulpiti. Raffigurano quattro dottori della
Chiesa: sotto il pulpito di sinistra S. Girolamo, colui che effettuò la
prima traduzione completa in latino della Bibbia, la cosiddetta "Vulgata",
raffigurato con il leone a suo fianco e con il cappello cardinalizio in
memoria degli incarichi che aveva svolto per papa Damaso, anche se cardinale
non lo fu mai in quanto questa carica ecclesiastica venne istituita dalla
Chiesa molto più tardi rispetto all'epoca in cui visse il santo.
Secondo un'antica leggenda il santo, con pietà e coraggio, estrasse una
spina dalla zampa di un leone che, riconoscente, perse la sua abituale
ferocia: negli anni questo episodio è stato attribuito anche allo schiavo
Androclo e poi ad un altro anacoreta, Gerasimo; il leone comunque resta,
nell'iconografia di S. Girolamo, uno dei suoi attributi più frequenti.
Con S. Girolamo è effigiato San Gregorio Magno che prima di venire eletto papa il 3 settembre del
590 era stato
monaco. Sotto l'abito papale però si intravede il saio
francescano.
C'è quindi chi ha pensato che nel papa se ne sia voluto ricordare
un altro, papa Sisto IV, padre Francesco della Rovere da Savona,
frate minore conventuale, che tra l'altro negli anni 1439-1441 era stato
insegnante di teologia nel convento dei Frari.
Padre della Rovere aveva scritto il "Sermone dell'Immacolata Concezione"
per la festa dell'8 dicembre 1448 e, una volta salito al soglio di Pietro,
aveva consacrato e dedicato all'Assunzione della Vergine Maria la Cappella
Sistina il 9 agosto 1483.
Prima che poi venisse affrescata da Michelangelo, la Cappella Sistina
accoglieva dipinti di Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Domenico
Ghirlandaio, Cosimo Rosselli e Luca Signorelli.
Sotto il pulpito di destra possiamo vedere altri due dottori della Chiesa:
S. Ambrogio e S. Agostino che sembrano stiano dialogando.
S. Agostino era arrivato a Milano per insegnare retorica, ma anche
per contrastare la fama del vescovo Ambrogio, raffigurato qui con il
suo flagello.
S. Agostino era restato affascinato dalla personalità di S. Ambrogio
tanto che si fece convertire da lui al cristianesimo nel 387 e da lui
ricevette anche il battesimo.
S. Agostino intervenne nel dibattito sull'Immacolata Concezione in almeno due
occasioni.
Nella più importante lo fece in risposta a Pelagio che aveva teorizzato
una dottrina che non teneva conto degli altri dati della fede facendo
passare quello di Maria come un caso di "autosalvezza" estraneo
all'unica salvezza che invece proviene da Cristo.
Per S. Agostino Maria era nata senza peccato «...perché sappiamo che,
per aver meritato di concepire e dare alla luce Colui che chiaramente
consta non aver avuto alcun peccato, le fu conferita più Grazia che
non occorresse per vincere da qualsiasi parte il peccato».
Anche S. Ambrogio era intervenuto più volte nell'elogiare la Vergine
Maria, madre di Cristo, considerandola "tipo" della Chiesa: «Sì,
ella è fidanzata, ma vergine, perché è tipo della Chiesa, che è
immacolata, ma è sposa: vergine ci concepì dallo Spirito, vergine ci
partorì senza dolore». Per S. Ambrogio dunque Maria è figura della
Chiesa per la santità immacolata, la verginità, la sponsalità e la
maternità.
Qui il vescovo Ambrogio sembra essere in ascolto di S. Agostino
che gli ripete le sue osservazioni sull'Immacolata Concezione mentre con
un dito indica verso l'alto; ed in alto, sopra di loro, sta il pulpito,
dentro la chiesa, dove viene proclamata e spiegata dai frati la Parola.
La scansione degli spazi del "septo" appare a prima vista regolare
e simmetrica con i riquadri dei profeti, i pulpiti ed i dottori della Chiesa.
Ma non è così.
Osservando sotto il pulpito di destra si può notare che cambia la decorazione
verticale che separa i riquadri dei profeti che in questo solo caso è
sostituita come da un bastone, da una verga, da cui escono gruppi di foglie. Si tratta di
una citazione biblica che rimanda ad Isaia (11, 1) «In quel giorno, un
germoglio spunterà dal tronco di Iesse, un virgulto germoglierà dalle sue
radici»: è il tema della genealogia di Cristo, esaltato dalla Vergine
Immacolata. Come Iesse è il padre di Davide dalle origini insignificanti,
così un nuovo Davide, Gesù, nascerà da insignificanti ed umili origini.
Tra l'altro la parola "virgulto" rende in italiano la parola
ebraica "nezer" che ha un suono che richiama il nome del
villaggio di Nazareth dove Gesù vive la sua infanzia perché, come scrive
Matteo (2,23) «...si adempisse ciò che era stato detto dai profeti:
"Sarà chiamato Nazareno".»
Il
volto sofferente del Cristo nel Crocificco ligneo dei Frari: si
possono notare le spine della corona che penetrano nella carne sopra
l'arcata sopraccigliare.
A coronamento del "septo" marmoreo troviamo le figure degli
apostoli: non sono tutti ma solo otto ed ognuno tiene in mano un libro, che
simboleggia la Parola: è la Parola che proviene dai profeti (che abbiamo
visto sotto, effigiati nel "septo") e gli apostoli sono
coloro che testimoniano la vita di Gesù con il quale hanno vissuto.
Ai lati estremi due statue chiudono la sequenza degli apostoli: a sinistra
quella di S. Antonio, che aveva fondato gli studi teologici sulla spinta di
S. Francesco che gli aveva scritto accordandogli il permesso di insegnare
teologia.
S. Francesco «voleva che i ministri della parola di Dio attendessero
agli studi sacri e non fossero impediti da nessun altro impegno (...).
Riteneva poi i dottori in sacra teologia degni di particolari onori» (Tommaso
da Celano, "Vita seconda", 163); ed ai Frari era attiva
un'importante scuola di studi teologici.
A destra è posta la statua di S. Francesco, con il libro ed il crocifisso a
ricordare che Francesco fu colui che aveva vissuto e messo in pratica
la Parola di Gesù fino a ricevere sul suo corpo i segni della Passione e della
Crocifissione: «Francesco volle di certo essere conforme in tutto a
Cristo crocifisso che, povero e dolente e nudo rimase appeso sulla croce»
(S. Bonaventura da Bagnoregio, "Legenda Major", XIV n. 4). Il "septo" è interrotto nella parte centrale dall'ingresso
al coro sormontato dal grande arco con la "déesis".
E' composta dal Crocifisso centrale e dalle figure della Vergine e di S.
Giovanni. Se queste ultime statue, come quelle degli apostoli, di S. Antonio
e di S. Francesco, sono attribuite a Vittore Gambello, detto il Camelio,
più sorprendente è l'attribuzione del Crocifisso. Fino a quando non furono
compiuti i restauri del 1992, si pensava addirittura che fosse in bronzo, tanto
era spessa e scura la patina che lo ricopriva. Con la ripulitura ci si
accorse che era un bellissimo Cristo in legno che in un primo tempo qualcuno pensò di mano vicino
alla scuola del Donatello che in quegli anni stava lavorando a Padova alla
Basilica di S. Antonio: francescani là, francescani qui -si disse- era possibile che
delle maestranze veneziane potessero aver lavorato a contatto con quelle del
Donatello il quale, non dimentichiamolo, è l'autore di un'altra statua
lignea dei Frari, il S. Giovanni Battista, firmata «Opus Donati de
Florentia anno MCCCCXXXVIII». Tuttavia alcuni studiosi (Adriana Augusti
che evidenziò una stretta affinità con la lunetta della Resurrezione di
Careggi, oggi al Museo del Bargello di Firenze) sembrarono
propensi ad attribuire il Cristo ad Andrea del Cione detto il Verrocchio.
Attualmente, anche per il maggiore interesse prestato dagli storici
dell'arte per le opere lignee, si è accantonata questa attribuzione,
formulando per il Crocifisso del coro dei Frari varie ipotesi, tra cui
quella di un'opera di un anonimo intagliatore tedesco che abbia assorbito,
assimilandola, la cultura italiana (Anne Markham Schulz); ma esiste anche l'ipotesi che sia opera
invece di un intagliatore italiano influenzato dai Crocifissi lignei
tedeschi (Elisabetta Francescutti) e quella di una bottega, magari vicina ai fratelli Cozzi
autori del coro,
che abbia operato su larga scala con una produzione quasi seriale (Ivan
Matejčić). Gli studi continuano (anche per dare una precisa
datazione) e saranno importanti futuri ritrovamenti di
altri crocifissi lignei su entrambe le sponde dell'Adriatico.
Il
trittico del Vivarini: sono stati i frati della Basilica ad
accorgersi, attorno al 2000, che la data apposta dall'artista assieme
alla sua firma che è sempre stata letta come "1482" deve
invece correttamente leggersi "1487".
Accanto ai due pilastrini che reggono l'arco ci sono due busti (attribuiti,
come i quattro dottori della Chiesa, a Pietro Lombardo): sono quelli di S.
Bernardino da Siena e di S. Lodovico d'Angiò.
Ma dobbiamo tornare ancora al cammino del cristiano: siamo entrati dal mondo
esterno, abbiamo meditato sui simboli che ci hanno lasciato i frati, ci
siamo imbattuti su una specie di sipario (il "septo"
marmoreo) che ci precludeva di proseguire oltre verso l'altare, sul "septo"
abbiamo incontrato la Parola dell'Antico Testamento (i profeti) sui quali si
fonda la testimonianza degli apostoli che hanno vissuto con Cristo (il Nuovo
Testamento) e attraverso l'implorazione degli uomini (la Vergine e S.
Giovanni che intercedono per l'umanità) sotto la croce sulla quale Gesù si
è offerto al Padre, il suo sangue, cioè la sua Grazia salvifica, scende su
di noi tutti.
E' necessario quindi passare sotto quell'arco di dolore, sotto Gesù
crocifisso per merito del quale possiamo avvicinarci alla mensa eucaristica,
che cominciamo ad intravedere davanti a noi nella cappella centrale, ed alla
gioia dell'Eucaristia.
Il nostro itinerario dunque prosegue, oltrepassando questo arco ed entrando
così nell'area del
coro ligneo.
Piano piano, mentre avanziamo tra gli stalli del coro, la prospettiva
davanti ai nostri occhi si allarga orizzontalmente; prima avevamo il "septo"
a chiuderci la vista, adesso le due ali del coro, ma procedendo la visuale
si amplia: al di là del presbiterio cominciamo a scorgere le cappelle
laterali, a destra ed a sinistra di quella maggiore, e l'intero transetto.
Arrivati al transetto ci portiamo verso destra e prima di superare il
portale che ci conduce alla sacrestia ci soffermiamo davanti alla cappella
Bernardo (l'ultima cappella di destra).
In essa è collocato un polittico di Bartolomeo Vivarini che rappresenta la
Vergine in trono con il Bambino sulle ginocchia attorniata da quattro santi:
S. Andrea e S. Nicola da Bari a sinistra, S. Paolo e S. Pietro a destra; in
alto, tra due angeli dorati e policromi scolpiti sopra la cornice forse di Jacopo
da Faenza, una tavoletta effigia il "Cristo Passo".
Il Vivarini dipinse questo polittico nel 1487, anche se, erroneamente, molti
leggono nel cartiglio dipinto nel gradino l'anno 1482. La scritta precisa
del cartiglio è: «BARTOLOMEUS VIVARINUS DE MURIANO PINXIT 1487».
Nonostante la maturità raggiunta dal Vivarini lo abbia fatto abbandonare
tante spigolosità tardogotiche che caratterizzavano la sua precedente
produzione, forse per merito anche delle suggestioni che potrebbe aver
ricevuto da Giovanni Bellini, noi in questa composizione vediamo un classico
trittico con tre finestre che si aprono nell'ancona lignea con due gruppi di
santi, uno a sinistra e l'altro a destra, e la Madonna con il Bambino in
mezzo in posizione sopraelevata ed in alto una quarta finestrella, come
aggiunta, con il Cristo morto a mezza figura che mostra le sue piaghe
redentrici.
Come dire quadri a sé stanti, collegati assieme solo da un'unica struttura
di cornice che resta estranea e indipendente dalle composizioni pittoriche
che racchiude.
I tre quadri sono accomunati tra loro solo da uno scalino dipinto in basso
su cui poggiano i santi ed il trono della Madonna.
Un altro elemento da sottolineare in quest'opera del Vivarini è proprio il
trono: la Madonna è assisa in trono.
Questi elementi sono da tenere a mente per quando ammireremo un altro
capolavoro, la Madonna con il Bambino di Giovanni Bellini, nella sacrestia.
Il
trittico di Giovanni Bellini dei Frari: è datato «dicembre 1488» e
rappresenta, al centro, la Madonna con il Bambino ed ai suoi piedi due
angioletti suonatori, a sinistra S. Nicola con S. Pietro, a destra S.
Benedetto con S. Marco.
Qui incontriamo un'altra Madonna con Bambino, quella
di Giovanni Bellini, che è tutta un'altra cosa.
Mentre si sta ancora costruendo la terza chiesa, quella che possiamo
ammirare oggi, la famiglia Pesaro da S. Beneto chiede ai frati di poter
usare una parte della sacrestia come cappella funebre per Franceschina Tron,
la moglie di Pietro Pesaro e madre di Benedetto, Nicolò e Marco.
La richiesta viene accolta ed i Pesaro si rivolgono nel 1478 a Giovanni Bellini
per ottenere da lui una pala
per il loro altare.
Il Bellini impiegherà dieci anni per eseguirla: infatti dietro la pala,
sulla tavola di legno, c'è la firma autografa di Giovanni Bellini con la
data «dicembre 1488».
In pratica la pala del Bellini è dipinta negli stessi anni del polittico di
Bartolomeo Vivarini ed ultimata l'anno dopo, ma la concezione è totalmente
diversa.
Anche se i tempi delle mode artistiche e degli stili pittorici a Venezia giungono
in genere sempre in ritardo, resta da chiedersi come mai in epoca
ormai rinascimentale, si facciano ancora trittici; in Toscana, ad esempio, si
dipingevano quadri con "sacre conversazioni".
Probabilmente alcune famiglie veneziane erano restate affezionate a
composizioni tipo "trittico", magari sembrava loro di rendere
"più antica" l'opera che stava sul loro altare, piuttosto che
scegliere una composizione "moderna".
Fatto è che Giovanni Bellini, che, ricordiamolo, aveva come cognato Andrea
Mantegna che ne sposò la sorella Nicolosia e che più tardi, nel 1475,
conobbe Antonello da Messina dal quale rimase influenzato sull'uso della
pittura ad olio, concepisce questo trittico in maniera
completamente diversa.
Se pensiamo a quello che abbiamo visto nel polittico del Vivarini, qui non
abbiamo una cornice che racchiude tre tavole, ma un'unica armonica composizione, disegnata probabilmente dallo stesso Bellini, che comprende la
parte pittorica e la cornice lignea intagliata da Jacopo da Faenza, come si
può leggere nella firma «Jachomo de Faeca» apposta sul retro.
Si tratta di una costruzione architettonica che ricorda un portico aperto da
un lato verso l'abside centrale, dall'altro verso uno scorcio di paesaggio;
ritroviamo l'architettura della composizione sulla parte
lignea come sulla parte pittorica: ad esempio le lesene ed i capitelli della
cornice sono ripresi prospetticamente nel dipinto cosicché abbiamo un punto
d'incontro tra il mondo esterno, profano, e quello del dipinto, il sacro.
Non ci sono spazi chiusi: ai lati, tra i pilastri dipinti e quelli lignei
scolpiti si vede un paesaggio aperto illuminato da una luce chiara e
limpida. I santi guardano direttamente la Vergine che è al
centro, sotto la volta mosaicata che per i veneziani rappresenta i catini
delle cupole della
Basilica di S. Marco.
Particolare
della pala centrale del trittico di Giovanni Bellini: l'architettura
della cornice, rappresentante il mondo esterno, il mondo profano, si
confonde con quella interna del dipinto che rappresenta lo spazio
sacro.
Altra differenza con il polittico del Vivarini è che la Madonna non è
seduta su un trono: osservate bene, non c'è alcun trono perché è Lei
stessa il trono, il trono di Cristo la "Saedes Sapientiaae,
la sede della Sapienza. Allo stesso tempo, guardando l'altare, noi possiamo
immaginare la Vergine come il tabernacolo che racchiude Cristo e lo offre ai
fedeli.
Ai piedi i due angioletti suonatori, che possono sembrare di semplice
ornamento, ma in realtà hanno un loro significato: uno suona un liuto, uno
strumento a corde, l'altro un flauto, uno strumento a fiato. Lo strumento a
corde rappresenta la musica celeste, la musica divina; pensate ad Apollo con
la lira. Lo strumento a fiato, per essere suonato, fa deformare le guance,
è la musica terrena: pensiamo a Marsia ed alla sua fine per aver osato
sfidare Apollo.
Due musiche discordanti, quella divina e quella celeste, ma dal loro insieme
si ottiene l'armonia. Ecco quindi che la "Saedes Sapientiae",
il trono della Sapienza, poggia sull'armonia.
In alto, sulla volta dorata, una preghiera: «Ianua certa poli, duc
mentem, dirige vitam, quae peragam commissa tuae sint omnia curae» (O
porta sicura del cielo, conduci la mente, dirigi la vita, a te affido ogni
mia azione).
Questa frase era stata tratta dall'ufficio dell'Immacolata che pochi anni
prima (1478) papa Sisto IV, padre Francesco della Rovere, aveva fatto comporre a
Roma.
La Vergine viene chiamata "Ianua coeli", cioè "Porta
del Cielo", ovvero passaggio per andare verso il cielo. Questo anche
spiega perché in tante chiese, ed anche in quella dei Frari, c'è
un'immagine della Madonna sopra il portone d'ingresso: è la "Ianua
coeli".
Ai lati vediamo i santi avvolti in una luce di gioia, una luminosità
particolare che indica la presenza di Dio. I santi sono quelli che ricordano
i nomi dei Pesaro committenti della pala: vediamo a destra S. Marco e S. Benedetto; ricordiamo
che questo ramo della famiglia era quello detto "di S. Beneto" (S.
Benedetto) e Benedetto Pesaro era il più importante dei figli di Pietro e
Francescina Tron, essendo stato il comandante della flotta veneziana nella
guerra contro i Turchi, ed a lui sarà poi innalzato il
monumento funebre
sopra la porta di ingresso che conduce alla sacrestia. S. Benedetto si volge con piglio
deciso verso di noi quasi ad
invitarci a partecipare a questa contemplazione mentre tiene aperto un
libro. E' il libro del Siracide il cui capitolo 24 è uno dei testi
fondamentali del culto dell'Immacolata Concezione, dottrina particolarmente
difesa dai Francescani e sulla quale la Chiesa si pronunciò definitivamente
nel 1854 con il dogma dell'Immacolata proclamato da Pio IX con la bolla "Ineffabilis
Deus" dell'8 dicembre: «Io sono uscita dalla bocca
dell'Altissimo» ricolma di una Grazia particolare, diversa, «gratia
plena».
A sinistra S. Pietro, a ricordo del vecchio padre e marito Pietro Pesaro,
e S. Nicola che guardano verso la Vergine.
E' interessante notare che qui i santi non sono collocati su un gradino,
come erano quelli di Bartolomeo Vivarini. Siamo in pieno Umanesimo, l'uomo
può raggiungere la santità ed i santi ci mostrano gli strumenti: S.
Benedetto il bastone con cui ha diretto i suoi frati, S. Nicola le tre palle
d'oro che ci richiamano la carità. Ognuno di noi può raggiungere la
contemplazione di Dio, la santità.
Possiamo immaginarci i componenti della famiglia Pesaro che venivano a
pregare qui davanti alle tombe di Franceschina e di Pietro che percepivano
chiaramente questa promessa dei santi che portavano i nomi dei membri della
loro famiglia.
La tomba del doge Farncesco
Dandolo (morto nel 1339). Sull'urna è rappresentata la "dormitio
virginis". Sopra l'arca sepolcrale c'è la lunetta dipinta da Paolo
Veneziano con S. Francesco e S. Elisabetta d'Ungheria che
presentano alla Madonna con il Bambino rispettivamente il doge Dandolo
e la dogaressa.
Nella
lunetta di Paolo Veneziano c'è un incrociarsi di sguardi: la Madonna
volta verso destra incrocia lo sguardo della dogaressa mentre il
Bambino è volto a sinistra, verso il doge Francesco Dandolo.
Prima di tornare nella Basilica per contemplare l'Assunta del Tiziano sopra
l'altar maggiore, dobbiamo brevemente riferirci a quegli anni: anni importanti
per i Francescani lacerati da divergenze e divisioni interne che portarono
alla costituzione di due gruppi, quello dei "Conventuales"
che privilegiavano la presenza nelle città per la predicazione del Vangelo
e quello degli "Observantes" che invece predicavano ideali
di assoluta povertà.
Quasi per ribadire questa separazione, che avrà la sua conclusione il 29
maggio 1517 con la promulgazione della bolla di papa Leone X "Ite
vos" con la quale i due ordini vengono nettamente divisi, e per
affermare l'appartenenza al gruppo dei Conventuali, Fra' Germano da Casale,
guardiano del convento dei Frari, nel 1516 dà l'incarico ad un giovane Tiziano, allora ventiseienne,
di dipingere una nuova pala per l'altar maggiore dei Frari.
Prima di vedere l'Assunta, conviene scendere un momento nella
sala del Capitolo alla quale si accede dalla sacrestia.
Qui è collocata la tomba del doge Francesco Dandolo (morto nel 1339) la cui urna è
sovrastata da una pregevole lunetta di Paolo Veneziano. Questa lunetta in
genere viene ricordata dalle guide perché sarebbe il più antico dipinto
che ritrae un doge. Qui invece vogliamo far notare un particolare: c'è S.
Francesco che presenta il doge Francesco Dandolo alla Madonna con Gesù
Bambino e dall'altro lato S. Elisabetta d'Ungheria che presenta la
dogaressa. Tiziano si ricorderà di questa immagine quando avrà da
dipingere la pala Pesaro: in particolare il Bambino
che si volge a sinistra, verso il doge, e la Madonna che si volge
dalla parte opposta, a destra verso la dogaressa.
Ma ora dobbiamo prestare attenzione al bassorilievo dell'urna sepolcrale: in
essa è rappresentato il modo con cui veniva concepito il transito (trapasso) della
Vergine in epoca bizantina: vediamo la Madonna come addormentata circondata
dagli apostoli, la greca "Koimesis" ("dormitio"). Al centro c'è
Cristo che viene a prendere sua madre: tiene tra le braccia un piccolo
corpo, come di bambina in fasce. Ai lati della raffigurazione, vicino ai due
angeli laterali, sono scolpiti due alberi, che sono il simbolo della vita
perché la Madonna continua a vivere in Cielo.
In realtà ci sarebbe anche da discutere se la "bambola" che porta
Gesù sia l'anima della Madonna e non piuttosto il suo corpo, in quanto «assumpta
est in coelo cum corpore et anima», ma qui il discorso
teologico si complicherebbe andando oltre le nostre intenzioni e lo scopo di
questa paginetta.
Quello che si voleva mettere in luce era il modo con cui veniva concepita l'assunzione
della Madonna: una "dormitio virginis": poi Tiziano farà
una cosa del tutto nuova.
C'è da chiedersi: perché proprio Tiziano viene chiamato nel 1516 a dipingere la
pala per l'altar maggiore?
Le risposte possono essere molteplici.
Prima di tutto Giovanni Bellini è morto, e Bellini era il pittore della
Repubblica; se non fosse morto sarebbe stato quasi certamente lui a ricevere
l'incarico.
Il secondo motivo poteva essere che già nel 1513 Tiziano si era impegnato
con la Repubblica a dipingere un grande "telero" che doveva
essere posto nella sala del Maggior Consiglio in Palazzo Ducale in una
posizione tra due fonti di luce , cioè in una situazione di cattiva
illuminazione, e farlo in modo che fosse ugualmente ben visibile. Si tratta
della famosa Battaglia del Cadore che la Repubblica volle per commemorare il
vittorioso scontro del 2 marzo 1508 dell'esercito veneziano contro le truppe
imperiali di Massimiliano I che faceva parte della lega di Cambrai. Tiziano
completerà questo quadro molti anni dopo e la tela venne distrutta in un
incendio nel 1577.
Il terzo motivo potrebbe essere che Tiziano fosse stato raccomandato dai
frati di Padova ai confratelli di Venezia per essersi particolarmente
distinto in quegli anni lavorando alla Scuola ("Scoleta") del Santo
per la quale aveva realizzato una serie di affreschi.
Tiziano sa esattamente dove verrà collocata la sua opera, quindi studia
come farla e come risolvere il problema dell'illuminazione da dietro e dai
lati.
Subito (1516-17) viene costruito l'arco in pietra.
Tiziano lavora molto velocemente ed in soli due anni, nonostante i Duchi di
Ferrara gli scrivessero continuamente per avere dei suoi quadri ed invitarlo
alla corte estense, la pala è pronta: «20 (maggio 1518) ... Fo
San Bernardin (...) et heri fu messo la palla granda di l'altar di
Santa Maria di Frati Menori suso, depenta par Ticiano, et prima li fu fato
atorno una opera grande di marmo a spese di maistro Zerman, ch'è guardian
adesso» (dai Diari di Marin Sanudo).
Una diceria che dura nel tempo racconta che quando viene scoperta la pala
questa è talmente nuova che per prima cosa i frati chiedono di toglierla.
Questa storiella risale al 1648, a 130 anni di distanza dall'esposizione
dell'Assunta e trae origine da un libretto di Carlo Ridolfi, "Le
maraviglie dell'arte", che dà credito a inesistenti proteste e
lamentele di Fra' Germano e dei frati contro Tiziano che sarebbero stati
insoddisfatti del quadro. Basterebbe dire che né il Sanudo né gli altri
cronisti contemporanei riportano queste presunte lamentele dei frati e che,
all'incontrario, dopo questa opera Tiziano ricevette molte altre
commissioni.
A parte il fatto che Fra' Germano era amico ed ammiratore di Tiziano, questo
aneddoto non ha proprio ragione di esistere perché all'epoca c'era una
mentalità ed una spiritualità diffuse che portavano chiaramente a capire
questo tipo di dipinto ed il suo messaggio.
Abbiamo accennato prima alla raffigurazione cui erano abituati i bizantini,
quella della "Koimesis". Ma non possiamo
dimenticare che se a Roma, alla fine del settimo secolo, si cominciava a
celebrare il 15 agosto la "dormitio virginis", un secolo
dopo il nome della festa mutò in "Assumptio Sanctae Mariae"
ed attorno alla metà del Trecento finalmente viene enfatizzato l'elevarsi
in Cielo del corpo di Maria «assumpta est in coelo cum corpore et anima».
Tiziano bene esprime questa fisicità corporea della Vergine che sale al
Cielo.
La cornice marmorea con i fregi dorati che contiene il dipinto è
chiaramente ispirata all'arco posto sul "septo" marmoreo:
ma mentre quell'arco, sovrastato dalla "déesis", è un
arco di dolore e di sofferenza, l'arco della cornice dell'Assunta appare
come un arco di vita, un vero e proprio arco di trionfo: nei due pennacchi,
forse opera dello stesso Tiziano, sono dipinte due vittorie alate, in alto
c'è Cristo risorto, dove la resurrezione di Cristo vittorioso sulla morte
anticipa l'Assunzione della Vergine. Ai lati della statua di Cristo, S.
Francesco e S. Antonio partecipano al trionfo dell'Assunzione che
condividono non come singoli individui, ma come rappresentanti
dell'istituzione francescana simboleggiata dallo stemma con le braccia
incrociate di Cristo e S. Francesco.
Alla base della cornice, sopra l'altare, è posto un falso tabernacolo,
cioè un tabernacolo marmoreo privo di porta, non usufruibile, con la
raffigurazione di una "imago pietatis" con un Cristo morto,
come ce ne sono altre due ai Frari,
una incassata nel pilastro trecentesco
che divide la prima dalla seconda cappella absidale a destra,
l'altra
dipinta dal Vivarini sopra il suo polittico nella cappella Bernardo
(l'ultima cappella absidale di destra).
L'Assunta
del Tiziano.
Il falso tabernacolo sotto la Vergine Assunta ci ricorda che la Madonna è
stata il tabernacolo di Cristo ma anche che, come Cristo è restato tre giorni
nel sepolcro prima di risorgere, anche la Madonna, secondo alcune antiche
tradizioni, sarebbe restata tre giorni nel sepolcro prima di essere assunta al
Cielo.
Quindi qui troviamo su un'unica linea il tabernacolo dell'altare, in cui è
riposto il corpo di Cristo, il falso tabernacolo simbolico, poi proseguendo verso
l'alto la Vergine Assunta
che viene accolta in Cielo dal Signore attesa dal Cristo risorto (la statua
centrale sopra la cornice).
Il sacerdote quando celebra l'Eucarestia, alzando gli occhi, scorge oltre il
vero tabernacolo dell'altare anche quello simbolico e tutta la scena del
quadro e non può fare a meno di coglierne il significato: Maria è
Immacolata, già purificata, perché Dio santificava il proprio tabernacolo
ed il tabernacolo di Gesù era Maria.
Possiamo dividere il quadro in almeno due parti: in basso c'è una parte
quadrata: è la parte terrena dove Tiziano esibisce tutto il suo manierismo
con queste figure degli apostoli che si agitano in posizioni contrapposte, chi di schiena, chi di fronte, chi con le braccia alzate. Poi c'è una
striscia di cielo azzurro; al di là degli angeli e della nuvola (una
nuvola spessa e consistente perché deve sorreggere un corpo reale, quello
della Vergine che viene assunta con il suo corpo) la luce cambia, non è
più una luce terrena ma uno splendore luminoso di infinito, là dove c'è
la gloria di Dio.
Lo spazio non è più quadrato, ma un cerchio perfetto dove ogni punto è
equidistante dal centro: siamo in un'altra dimensione, una dimensione di
infinito.
La Vergine non ha le sembianze della giovinetta dell'Annunciazione: è
piuttosto una donna matura che ha vissuto e sofferto nella sua vita.
Spalanca le braccia con lo stesso gesto della Madonna annunziata, quando ha
pronunciato quel "sì" all'annuncio che sarebbe diventata
la madre di Cristo ed è vissuta sempre fedele a quel "sì".
In alto Dio Padre è rappresentato un po' di traverso, perché sempre in
movimento, ed aprendo anche Lui le braccia l'accoglie nello spazio infinito.
C'è una sorta di dialogo tra i due, mentre al lato un angelo tiene la
corona con la quale la Madonna sarà incoronata ("Regina coeli")
e nello stesso tempo, come
prima redenta, è il segno di speranza per tutti i fedeli.
Come abbiamo detto la storia raccontata da Carlo Ridolfi secondo la quale, una volta scoperta la pala,
gli stessi frati non fossero restati soddisfatti dell'opera è falsa e priva di
fondamento. Infatti nella spiritualità veneziana era ben presente questa
idea di Maria assunta. Da poco erano stati stampati i sermoni di San Lorenzo
Giustiniani (1381-1456), primo Patriarca di Venezia, che possono quasi descrivere il
quadro, tanto ispirarono Tiziano. Il concetto di "trionfo"
nell'opera e nella collocazione nella cornice: «Oggi con grande gaudio
trionfò in cielo» («hodie cum ingenti gaudio triumphabit in coelis»).
Ed il gesto con cui Tiziano fa incontrare la Madonna a Dio Padre sembra
essere accompagnato dalle parole: «che dirò al mio Signore che mi ha
fatto un sì grande onore? Ripeterò le stesse parole che dissi un tempo:
ecco l'ancella del Signore.»
Alcune note di approfondimento, anche sulle traversie che dovette subire il
quadro dell'Assunta di Tiziano, si possono leggere
in questa paginetta.
Prima di lasciare il presbiterio, possiamo dare un'occhiata a
questo crocifisso ligneo, non destinato all'altar maggiore, ma la cui
storia è estremamente interessante.
Ora ci poniamo di fronte ad un'altra opera del Tiziano, la Pala Pesaro.
Fra coloro che finanziarono la grande pala dell'Assunta ci fu probabilmente
il vescovo Jacopo Pesaro che ordinò a Tiziano una pala per l'altare di
famiglia pagandola 96 ducati, più altri sei per il costo del telaio.
Tiziano impiegò sette anni (dal 1519 al 1526) per dipingerla, a
causa di numerosi ripensamenti soprattutto nella composizione
architettonica, come è stato documentato dalle radiografie eseguite in
occasione di un restauro.
L'altare in origine era stato dedicato all'Immacolata Concezione e solo nel
1518 era stato ceduto alla famiglia Pesaro del ramo di S. Stae (quello di
Ca' Pesaro) che si impegnava, tra l'altro, a far celebrare una messa in
occasione della festa dell'Immacolata e, in quel giorno, ad offrire un
pranzo ai poveri.
La pietà di questa famiglia ha sempre fatto sì che questo altare rimanesse
dedicato all'Immacolata: qui, in alto a destra dell'altare, c'è la tomba di
Jacopo Pesaro, opera della bottega dei Lombardo, che fece eseguire nel 1524
quando era ancora in vita (morirà infatti nel 1547). Sull'urna il defunto
è raffigurato disteso su un fianco mentre la testa è sollevata a
contemplare il cielo: due putti accostano una mitria vescovile allo stemma
della famiglia mentre un'iscrizione ricorda come il vescovo in guerra fosse
capace di vincere i nemici, in pace invece sapeva vincere se stesso.
La pala venne commissionata nel 1519 a Tiziano: ecco quindi
che in questo quadro si sviluppa il tema mariano dell'Immacolata Concezione,
la celebrazione della famiglia Pesaro, ma anche il suo messaggio politico.
La
pala Pesaro del Tiziano, posta sull'altare della famiglia Pesaro,
dedicato in precedenza alla Madonna Immacolata.
I
membri della famiglia Pesaro: in alto, da sinistra, il cavaliere
Francesco Pesaro, poi Antonio, Fantino e Giovanni. Più in basso il
figlio di Antonio, e nipote di Francesco, Leonardo che per la sua
giovane età non pare molto interessato al momento di devozione dei
membri della sua famiglia e sembra più interessato a quanto accade
fuori della tela: il suo sguardo segue lo spettatore in qualsiasi
posizione si ponga.
Nel quadro vediamo Jacopo Pesaro nella sua veste di ammiraglio della flotta
pontificia: aveva infatti comandato venti galee papali nella battaglia
contro i Turchi di Santa Maura (1503) riportandone la vittoria, poi vescovo
di Pafo, quindi difensore e garante della fede. Dietro un soldato regge un
rosso vessillo con lo stemma Borgia di papa Alessandro VI e, più piccolo,
quello della famiglia Pesaro. Il vessillo è sormontato da rami d'alloro,
simbolo di vittoria. Qualcuno vorrebbe vedere in quel soldato un santo
guerriero, S. Maurizio, il protettore delle conversioni dei pagani. Alle
spalle del vescovo, con un turbante, un prigioniero turco che ricorda la
vittoria militare.
Continuando a descrivere i personaggi, troviamo sugli scalini S. Pietro:
tiene aperto il libro della Parola, perché è Pietro, ovvero il papa, la
massima autorità della Chiesa, che deve interpretare le Scritture. E' S.
Pietro che presenta il vescovo alla Vergine.
Come abbiamo già visto nella lunetta di Paolo Veneziano,
la Vergine guarda verso S. Pietro mentre il Bambino guarda dalla parte
opposta.
Questo quadro è tutto un intreccio di intensissimi sguardi: Maria guarda S.
Pietro e questi si rivolge con lo sguardo verso Jacopo Pesaro.
Il Bambino sembra giocare con il velo della Madonna coprendosene il capo.
Secondo antichi testi apocrifi la Madonna era intenta a tessere quando
riceve l'annuncio dell'angelo e quel velo sarebbe diventato il sudario di
Cristo. Quindi in realtà si tratta di una scena apparentemente gioiosa di
un bimbo che gioca con il velo della madre perché in realtà preannuncia la
morte.
La Madonna reggendo il Figlio lo tocca in due punti del corpo, nel costato
ed il piedino, due luoghi del corpo che riceveranno le ferite della
crocifissione. Secondo un'altra lettura, la mano sul costato e quella sui
piedi sottolineerebbero la duplice natura di Cristo, quella divina (il
costato, la parte alta del corpo) e quella umana (i piedi, la parte bassa
del corpo).
Il Bambino non guarda il vescovo Jacopo Pesaro, ma il suo sguardo è rivolto
verso la destra del quadro, verso S. Francesco ritratto assieme a S.
Antonio.
Francesco mostra le sue mani piagate al Bambino che sembra ritrarsi indietro
inorridito pensando forse al dolore che dovrà sopportare anche lui.
Dietro a S. Francesco c'è S. Antonio: la loro presenza è giustificata
in quanto sono i santi protettore di due Pesaro, Francesco, raffigurato con la
veste rossa scarlatta dei cavalieri, ed Antonio; ma naturalmente anche
ci ricordano che siamo in una chiesa francescana e la presenza di S. Antonio
ci sottolinea l'appartenenza ai "Conventuales".
Antonio è rappresentato girato che guarda verso i cinque personaggi
inginocchiati in basso a destra. Sono membri della famiglia Pesaro:
Francesco Pesaro, come già detto, appena insignito del titolo di cavaliere
e dietro di lui Antonio, Fantino e Giovanni. Più in basso il figlio di
Antonio, e nipote di Francesco, Leonardo: per la sua giovane età non pare
molto interessato al momento composto di devozione dei membri della sua
famiglia e, distrattamente, sembra osservare quello che accade al di fuori
della tela. Il suo sguardo, da qualsiasi posizione ci poniamo, sembra
seguirci sempre.
Una curiosità: Leonardo Pesaro, raffigurato qui ragazzino, altri non è se
non il nonno del doge Giovanni Pesaro che riposa nell'imponente monumento
funebre barocco che si trova a sinistra, opera di Baldassarre Longhena.
In alto due angioletti, sopra una nuvola, raddrizzano la croce di Cristo.
Quella nuvola con gli angeli in cielo, che troviamo anche nell'Assunta,
rappresenta la "nube della non conoscenza", quella nuvola che si
frappone tra Dio e gli uomini e che non può essere superata con
l'intelletto, ma solo con l'amore: l'amore reciproco di Dio per Maria e
quello della Madonna per Dio. Solo questo amore ci consente di attraversare
la "nube della non conoscenza" e di avvicinarci alla luce.
Anche l'impianto architettonico, su cui Tiziano ebbe numerosi ripensamenti,
è ricco di citazioni.
Alle spalle della Vergine c'è un muro, una parete chiusa senza alcuna
apertura: può essere un riferimento alla verginità della Madonna con un
ricordo del passo del profeta Ezechiele quando scrive (44, 1-2) «Questa
porta rimarrà chiusa, non verrà aperta, nessuno vi passerà, perché c'è passato il Signore, Dio
d'Israele. Perciò resterà chiusa»
Due colonne dominano la tela. Al di là del gioco prospettico che fanno
assieme alle colonne della Basilica, delle quali sembrano un naturale
prolungamento, possono avere differenti letture: possono essere un ricordo
della porta del cielo, la Madonna "Ianua coeli"; c'è poi
un versetto del Siracide dove leggiamo (24, 4) «Ho posto la mia dimora
lassù, il mio trono era su una colonna di nubi.»; si potrebbe anche
cogliere un riferimento alla chiesa francescana di S. Maria dell'Ara Coeli presso il
Campidoglio: la leggenda narra che questa chiesa sarebbe sorta nel luogo
dove Augusto avrebbe avuto la visione di una donna con un bambino in braccio
appoggiata ad una colonna che gli avrebbe detto: «Questa è l'ara del
figlio di Dio. Solo a me devi dedicare un tempio!» Secondo la leggenda si trattava della Madonna e nel
«Mirabilia Urbis Romae» viene precisato che «... questa visione
avvenne nella camera dell'imperatore Ottaviano, dove ora è la chiesa di S.
Maria in Capitolio. Per questa ragione la chiesa di S. Maria fu detta Ara
del Cielo.»
La chiesa sarebbe sorta sulle rovine del tempio di Giunone Moneta, secondo
altri dove si trovava l'"Auguraculum", il luogo da dove gli
Auguri osservavano il volo degli uccelli per trarne auspici.
Ma per un veneziano due colonne possono ricordare solo quelle nella piazzetta di S.
Marco, davanti al Palazzo Ducale.
Dopo la celebrazione della famiglia Pesaro, dopo il tema dell'Immacolata
Concezione, veniamo così ad accennare ad un'altra possibile lettura del
quadro, quella "politica", cioè l'identificazione della Vergine
con Venezia stessa.
Già le colonne ci introducono al Palazzo Ducale, sede del governo politico
della Repubblica. Poi basti pensare alla data mitica della fondazione della
città, il 25 marzo: il 25 marzo 421 nasce Venezia: «Venezia fo comenzata a
edificar (...) del 421, adì 25 Marzo in zorno di Venere circha l'hora
di nona ascendendo, come nella figura astrologica apar, gradi 25 del segno
del Cancro. Nel qual zorno ut divinae testantur litterae fu formato il primo
homo Adam nel principio del mondo per le mano di Dio; ancora in ditto zorno
la verzene Maria fo annunciata dall'angelo Cabriel, et etiam il fiol de Dio,
Christo Giesù, nel suo immacolato ventre miraculose introe, et secondo
l'opinione theologica fo in quel medesmo zorno da Zudei crucefisso.» (Marin
Sanudo, "De origine, situ et magistratibus Urbis Venetiae, ovvero la
città di Venezia", 1493-1530).
Oltre che la nascita della città, il 25 marzo era il primo giorno del
calendario civile veneziano, si credeva che fosse il giorno della fondazione
di Roma, e quindi associato all'inizio dell'era cristiana, era, secondo il
calendario giuliano, l'equinozio di primavera e quindi il rinascere della
natura, era infine il giorno dell'Annunciazione.
Allora pensiamo un momento al campanile in piazza S.
Marco. Sulla sua sommità è collocato un angelo dorato. L'angelo annuncia
alla Madonna che sarà portatrice di salvezza. Ma l'angelo del campanile fa
questo annuncio alla città che si stende ai suoi piedi. La Madonna e
Venezia si identificano. Ricordiamoci che Venezia era anche chiamata la
città vergine, perché mai nessun esercito nemico l'aveva oltraggiata e
nella sua storia, fino a Napoleone, era restata sempre inviolata.
A quale compito di salvezza era stata chiamata dall'angelo, Venezia?
Guardiamo il quadro come se al posto della Vergine ci fosse Venezia: vediamo
il turco, cioè il pagano, vediamo il santo guerriero, S. Maurizio, il santo protettore delle conversioni
dei pagani, vediamo il vessillo papale.
Allora la visione si completa: il compito di Venezia, città immacolata, è
quello di portare la Fede tra i pagani e convertirli. Il turco è condotto a
Venezia, S. Maurizio protegge la sua conversione e tutto questo sotto gli
occhi delle Vergine come immagine mitica di Venezia, bella, pia, libera,
vergine, sposa e madre. Questa era la visione religioso-politica che i Pesaro
avevano della propria missione.