Sono quasi le cinque del pomeriggio quando ci avviciniamo a La Paz.
Percorrendo l'altopiano andino ad una quota di circa 4.000 metri sul livello
del mare, La Paz è come invisibile fino all'ultimo: infatti la capitale
amministrativa della Bolivia si trova come in un catino, dove il centro
della città è sul fondo e la periferia, attorno, è arrampicata
sull'altopiano 400 metri più su.
Di conseguenza le strade del centro sono tutte in pendenza, dovendo dal
fondo del catino risalire verso i suoi bordi.
La Paz, il cui nome completo è Nuestra Señora de La Paz, venne fondata il
20 ottobre 1548 dal capitano spagnolo Alonso de Mendoza. Il nome è a
ricordo della pace che concluse la guerra civile che era iniziata a seguito
dell'insurrezione di Gonzalo Pizarro, fratello di Francisco, contro il primo
viceré del Perù, Blasco Núñez de Vela.
In origine la città era stata fondata dove oggi sorge il villaggio di Laja,
ma in seguito, a causa del vento gelido che batteva la zona,
venne trasferita in una valle riparata dove c'era un villaggio di minatori aymara,
Chiquiago, il luogo dove sorge attualmente.
Scorgiamo le prime piccole case della periferia di La Paz sull'altopiano, ma
è solo quando arriviamo sul bordo del "catino" che vediamo la
città stendersi ai nostri piedi: è un panorama veramente spettacolare,
dominato sullo sfondo dalla Cordillera Real e dalle tre cime dell'Illimani
(che gli indigeni chiamano affettuosamente "Abuelo de poncho blanco",
ossia il "nonno dal poncho bianco").
Alla
sera alla periferia di La Paz un quartiere in festa, mentre la città
si estende in fondo alla vallata.
Uno
dei tanti mercati di La Paz.
In questo quartiere di periferia, dove ci siamo fermati qualche minuto per
ammirare la città sotto di noi, si sta svolgendo una festa: i vicoli sono
imbandierati, le donne e gli uomini sono nei loro costumi tradizionali e
sfilano in una specie di processione danzando sulle note di una musica molto
ritmata. Se abbiamo capito bene, stanno festeggiando la festa della Madonna
della Neve incuranti, almeno per ora, del "golpe".
Alle sei di sera ci sistemiamo nell'albergo che abbiamo trovato in Avenida
Manco Capac, piuttosto centrale, vicino a San Francisco ed all'Avenida
Montes, la lunga strada principale di La Paz che cambia più volte nome: si
trova lungo il percorso della valle del rio Choqueyapu che è stato in gran
parte interrato.
Usciamo per un assaggio di La Paz. Troviamo tutto chiuso, un po' per la
festa, un po' per il colpo di stato che è ancora in atto. Ad un raro
passante al quale avevamo chiesto delle indicazioni stradali chiediamo:
«¿Qué pasa a La Paz?» e lui: «Mucha tristeza señor».
Da lui veniamo anche a sapere che a La Paz è in vigore il coprifuoco dalla
mezzanotte alle 4 della mattina.
Così mentre cerchiamo un locale dove cenare, divento io l'ultima vittima
del soroche che, a turno, in modo più o meno forte aveva colpito
tutti i compagni di viaggio.
Una sensazione strana, senza svenimenti, mentre si camminava assieme lungo
il marciapiede. All'improvviso cado a peso morto, non sento più le gambe
che mi sostengono. Con l'aiuto dei compagni, mi siedo su un gradino e cerco
di respirare profondamente: nessun malessere, forse un senso di stanchezza
generale e le gambe che non sento più.
Con l'aiuto del gruppo mi infilo in un taxi e mi faccio portare in albergo.
Lì mi bevo una bella tazza calda e zuccherata di "mate de
coca" e mi sdraio a letto.
Vuoi che sia stato il rimedio locale, vuoi che il merito vada al riposo, la
mattina dopo starò benissimo e così verrò a sapere che i miei compagni la
sera prima avevano trovato una bettola dove preparavano delle bistecche mostruose
alla griglia con patate.
Fattucchiere
vendono la loro mercanzia al "Mercado de Hechicería" (il
mercato delle streghe).
La
strana mercanzia in vendita: nei due cestini ci sono cadaveri di
animali essiccati.
All'indomani mattina bisogna andare tutti all'ufficio del ministero
dell'immigrazione in calle Consalvez.
Non ci era molto chiaro il motivo di questo controllo che ci avevano
comunicato alla frontiera: in definitiva ci avevano apposto sul passaporto un visto
valido per 15 giorni ed avevamo compilato la scheda con tutti i nostri dati,
provenienza del viaggio, destinazione finale, motivo della visita, ecc.
Alla "Oficina de Migraciòn" di La Paz capiamo che questo ulteriore controllo è
una conseguenza del colpo di stato: senza il loro visto alla frontiera
non ci farebbero lasciare il paese. Ed il visto per l'uscita sul nostro
passaporto non è generico, ma circostanziato: «Autorizase el viaje de:
(nome e cognome) A: Peru en Fecha: 8-8-81».
La nostra breve sosta a La Paz non ci consente di fare grandi cose così,
espletate le formalità burocratiche con l'"Inmigracion",
ognuno può sfruttare la mattinata come meglio crede con appuntamento alle
13 con il nostro bus.
Io con altri, dopo aver visto la Basilica de San Francisco, mi addentro
per le stradine dietro alla chiesa dove ci sono vari mercati, tra i quali quello
singolare e famoso "delle streghe" (Mercado de Hechicerìa).
Qui sono in vendita gli amuleti ed i portafortuna più incredibili:
barattolini di vetro con foglie secche, sassolini, pezzetti di stoffa,
liquidi strani, bamboline di pezza.
Ci sono talismani per ogni necessità: per l'amore, per i soldi, per il
matrimonio, per la nuova casa, per avere figli. Ma oltre a quelli per la buena
suerte ci sono anche quelli per la mala suerte: sventure al
rivale (spesso d'amore), vendette, forse anche di morte.
E' difficile saperne di più: le "streghe" (le venditrici sono
esclusivamente donne) sono molto restie a parlare e di fronte a noi, che non
siamo degli iniziati, evitano di rispondere a domande.
Solo una ci mostra quelli che ci dice essere dei feti di lama essiccati che dovrebbero
essere seppelliti davanti alla nuova casa che si va ad abitare per procurare
amore ed armonia agli abitanti.
Unguenti,
sassolini, foglie, frutta, intrugli vari, venduti come amuleti.
Quella
che viene chiamata "Valle della Luna", nei dintorni di La
Paz.
Non sono sicuramente belli da vedersi, ma per noi, che non ce ne intendiamo,
potrebbero anche essere cadaveri di altri animali essiccati e disidratati.
Per tornare verso l'appuntamento con gli autisti e con il bus attraversiamo
altri mercati, questi più tradizionali, dove troviamo anche oggetti di
artigianato, come tappeti, cinture, flauti di vario tipo ("quena" e
"zampuña"),
stoffe ricamate.
Poco dopo le 13 ci spostiamo per andare a vedere, pochi chilometri fuori La
Paz, quella che ci viene presentata come la "Valle della Luna": si
tratta di un canyon naturale con rocce lavorate dall'acqua e dal
vento. Un paesaggio veramente "lunare", molto suggestivo.
All'ingresso del canyon c'è un piccolo parco esclusivamente di
cactus ed altre piante grasse.
Al ritorno a La Paz veniamo a sapere che a Carlo, che era restato a girare
in città con altri, hanno rubato il marsupio che conteneva la macchina
fotografica ed il passaporto. Dove sia successo, non è in grado di dirlo.
Lui non si è accorto di nulla, tanto sono stati abili: voleva fare una foto
e si è accorto di non avere più il marsupio!
Assieme, accompagnati da Amerigo che si offre di aiutarci a muoverci tra la
burocrazia boliviana, andiamo a fare la denuncia presso la stazione di
polizia. Quindi ci facciamo portare tutti e tre da un taxi all'ambasciata
italiana per il problema del passaporto.
All'ambasciata non sono in grado di fare subito un nuovo passaporto: è
tardi, domani è sabato, se ne riparla per lunedì. Oltretutto con il nuovo
passaporto è necessario che il Ministerio de Migracion apponga la
conferma dell'ingresso legale in Bolivia, e questo può farlo solo dopo aver
ricevuto le famose liste d'ingresso che avevano fatto alla frontiera di
Desaguadero. Alle nostre insistenze (siamo un gruppo che viaggia assieme,
domani dovremmo essere già a Puno, ecc...) ci rispondono che un funzionario, che ci
potrà aiutare a rendere veloci le pratiche, potrebbe essere in ambasciata
domani, anche se è sabato, o sicuramente lunedì.
Su suggerimento di Amerigo, decidiamo che domani Carlo partirà con noi:
Amerigo lo aiuterà a fargli passare la frontiera senza passaporto!
L'ultima
serata a La Paz a base di musica e "pisco".
Amerigo
alle prese con il serbatoio del nostro bus che si è staccato.
Trascorriamo l'ultima serata a La Paz ascoltando musica andina e bevendo pisco
alla "Peña Naira", vicino a San Francisco.
La sveglia è piuttosto mattiniera: infatti sapendo che la frontiera di
Desaguadero chiude per pranzo e siesta, noi vogliamo esserci prima di
mezzogiorno e vogliamo dedicare anche un tempo sufficiente alla visita delle
rovine di Tiahuanaco.
Alla partenza dobbiamo risalire la vallata nella quale si trova La Paz e
raggiungere l'altopiano che troviamo ricoperto di nevischio e brina: il sole
è ancora basso all'orizzonte, poi salendo riscalderà l'aria e scioglierà la
brina.
Lungo la strada al nostro bus si stacca uno dei due serbatoi del carburante:
ha ceduto un supporto di fissaggio. I nostri autisti effettuano una legatura
di emergenza con il fil di ferro: questa sera saremo a Puno dove terminerà
il nostro tour con loro.
Alle 8.30 entriamo nel sito archeologico di Tiahuanaco.
Il periodo delle culture classiche, rappresentate lungo la costa da quelle
Moche e Nasca, trova la più alta espressione nell'altopiano attorno al lago
Titicaca con la cultura Tiahuanaco (detta anche Tiwanaku).
Tiahuanaco si costituì in un grande centro religioso di culto, come fu in
precedenza Chavín
de Huántar,
dal quale fu ispirato.
Il periodo di maggiore espansione di Tiahuanaco è contemporaneo a quello Moche
e Nasca
(IV-IX secolo d.C.).
Questa è la fase che viene denominata Tiahuanaco-Altopiano.
Il periodo delle culture classiche era caratterizzato da una certa
bellicosità: le etnie che lottavano per l'egemonia portarono alla
formazione di nazioni che a loro volta erano in lotta le une contro le altre
per ampliare le loro frontiere. Così i Nasca finirono con penetrare nella
Sierra arrivando alla regione di Ayacucho nell'ottavo o nono secolo.
Anche Tiahuanaco, la cui cultura era restata circoscritta nell'altopiano del
lago Titicaca, allarga le proprie frontiere e giunge fino alla regione di
Ayacucho. Ma l'espansione della cultura Tiahuanaco-Altopiano, che in certi
casi (Pacheco) arrivò alla costa sud, era dovuta probabilmente al
diffondersi delle idee magico-religiose e del culto, come testimonia
l'iconografia degli oggetti in ceramica.
Ad Ayacucho le culture di tipo Nasca e quella Tiahuanaco-Altopiano si
fusero, dando origine ad una espressione culturale nuova che viene
denominata Tiahuanaco-Huari: la base religiosa e ideologica di questa
cultura, a giudicare dall'iconografia, è ancora quella Tiahuanaco-Altopiano,
però è chiamata Tiahuanaco-Huari per gli importanti apporti che
ricevette dalla cultura Nasca.
La fase Tiahuanaco-Huari, a circa un secolo dal suo svilupparsi, entrò in
crisi e la capitale fu abbandonata. Appaiono nuove espressioni culturali che
conservano la tradizione religiosa Tiahuanaco-Huari, pur modificandola:
sorgono così queste nuove culture regionali derivate, che sono chiamate
epigoni (ne sono un esempio Pativilca, Lambayeque, Chancay
"tricolore").
Queste culture "epigoni" emancipandosi tenderanno poi ad imporre
la propria egemonia, ma questo fenomeno appartiene ad un periodo successivo
nel quale si consolideranno nazioni come la Chimù.
Il sito archeologico di Tiahuanaco è il luogo dove tutto ha avuto origine
con la cultura Tiahuanaco dell'altopiano. E' sicuramente uno dei siti
archeologici più importanti (e tra i più famosi) d'America.
Già nel XVI secolo era stato visitato e descritto da Pedro Cieza de León, che
lo ritenne una cosa importante, anche se tutte le costruzioni erano
abbandonate ed in rovina: «...para mí tengo esta antigualla por la más
antigua de todo el Perú».
Il "Templo
semisubterráneo" all'ingresso del complesso di Tiahuanaco.
Sulle pareti di
contenimento del "Templo semisubterráneo" sono
collocate queste pietre cefalomorfe, le "cabezas-clavas"
che avevamo già visto a Chavín de Huántar.
Noi entriamo quasi in punta di piedi nell'area aperta alle visite, che
misura circa un chilometro per 500 metri.
Distinguiamo già dall'ingresso alcune strutture che dominano sulle altre,
una specie di montagnola ed un grande recinto e poi un susseguirsi di
strutture minori appartenenti a periodi diversi. Alcune furono iniziate, ma
poi abbandonate senza esser state completate, come già aveva osservato, o
intuito, Pedro Cieza de León nel 1553: «...y nótase por lo que se ve destos
edificios que no se acabaron de hacer...».
Per erigere le varie strutture fu utilizzata pietra di diverse origini, ad
esempio basaltica o arenaria, che veniva lavorata con cura e collocata in sede con un
notevole sforzo da parte di molti uomini. Vediamo i blocchi più grandi
uniti tra loro mediante incastri e giunture di rame a forma di "Y"
o di "I".
Attorno all'area ci sono tratti di una muraglia che forse racchiudeva il complesso;
attorno sono visibili anche i resti di opere stradali e di un acquedotto.
Per accedere ai complessi principali, iniziamo il nostro percorso da quello
che viene chiamato il "Templo semisubterráneo", che precede la
più vasta "Calasasaya".
Si tratta di un recinto quasi quadrato (misura infatti m. 28 x 26) posto ad
un livello inferiore del suolo (forse a meno di due metri): sulle pareti di
contenimento sono collocate delle pietre cefalomorfe, del tutto simili alle
"cabezas-clavas"
che avevamo visto a Chavín de Huántar.
Questo "Templo semisubterráneo" venne scoperto agli inizi del
Novecento da Courty e nel 1932 W.C. Bennett vi dissotterrò un monolito che
ora porta il suo nome alto m. 7,30 in pietra arenaria, pesante 17
tonnellate. Il monolito rappresenta una figura mitologica che tiene nelle
mani alcuni oggetti simbolici (nella mano sinistra è riconoscibile un vaso
del tipo "quero") e quasi ogni spazio è ricoperto da fitti
elementi decorativi che ritroviamo in altri manufatti di Tiahuanaco.
Purtroppo non possiamo ammirare questo monolito dal vero: infatti a causa
della friabilità della roccia, che dopo lo scavo veniva aggredita con
facilità dagli elementi atmosferici, esso venne trasferito a La Paz dove
oggi si trova.
Tutto il complesso del "Templo semisubterráneo" negli anni
Sessanta del XX secolo venne consolidato e subì un discutibile restauro da
parte di C. Ponce con la collaborazione di G. Cordero.
Attraversiamo una scalinata monumentale di sei gradini che è stata scavata
da un unico blocco di pietra: non abbiamo le misure precise, ma
approssimativamente sarà una pietra lunga 10-12 metri.
Per questa gradinata accediamo alla "Calasasaya", una delle
costruzioni più vaste di Tiahuanaco con i suoi 135 metri per 130. Il nome
"Calasasaya" significa "pietra recintata" ed allude alla
caratteristica che presenta il complesso: grandi pietre allungate conficcate
al suolo come pali. Antichi viaggiatori raccontarono come queste pietre
fossero disposte in file a formare un gran rettangolo. Questi pilastri costituivano
la nervatura dei muri, le cui pietre più piccole sono in parte disseminate
ed in gran parte disperse, utilizzate dai contadini della zona per costruire
le proprie case.
Anche quest'area venne restaurata negli anni Settanta del XX secolo.
Così si presentava la scala
monumentale che dal "Templo semisubterráneo" porta alla
"Calasasaya". E' ben evidente la scalinata scavata su un
unico pezzo di roccia. Poi sono intervenuti i "restauri"
degli anni Sessanta del XX secolo...
Ecco
come abbiamo visto noi la scala monumentale dopo il
"restauro".
Sui lavori di pesante restauro che sono stati effettuati a Tiahuanaco negli
anni Sessanta e Settanta del XX secolo si sono levate numerose voci critiche
e di protesta che ricordavano come la Carta di Venezia raccomandasse che
dovevano essere esclusi lavori di ricostruzione; all'incontrario a
Tiahuanaco si sarebbero costruite pareti nuove, elevati muri e contrafforti
che annullano il valore ed il pregio delle parti originali ed autentiche, in
spregio all'articolo 9 della "Carta di Venezia".
La "Carta internazionale per la conservazione e il restauro dei
monumenti" (chiamata anche "Carta di Venezia") venne compilata
dal 25 al 31 maggio 1964 a Venezia, presso la Fondazione Giorgio Cini
nell'isola di S. Giorgio da 516 tra architetti, storici e studiosi di
restauro.
E' considerata la "Magna Charta" del restauro monumentale.
La "Carta di Venezia" è il risultato di un tentativo di
armonizzare e conciliare le esigenze dello sviluppo urbanistico delle città
con le esigenze di conservazione.
La "Carta" si compone di 15 articoli, dei quali propongo lo stralcio di
qualcuno. Articolo 1 - il concetto di monumento storico abbraccia non solo il
singolo lavoro architettonico ma anche il contesto urbanistico in cui è
inserito che ci offre la testimonianza di una civiltà particolare o di un
evento storico. Articolo 2 - è essenziale che le regole per la conservazione dei monumenti
siano fisse.
Articolo 5 - i monumenti dovrebbero essere adibiti ad usi socialmente
utili. Questo utilizzo non deve però alterare la disposizione o le
decorazioni degli edifici. Entro questi limiti si possono concedere le
modificazioni richieste dal mutare degli usi e dei costumi.
Articolo 6 - la conservazione di un monumento implica il rispetto dello
schema tradizionale in cui è inserito. Non deve essere permessa nessuna
nuova costruzione, demolizione, modificazione che potrebbe alterare le
relazioni di massa e colore.
Articolo 9 - nel caso si restauri, ogni elemento nuovo aggiunto deve
essere riconoscibile come nuovo e non deve confondersi con le parti d'epoca.
La
"Puerta del Sol" di Tiahuanaco.
L'architrave
della "Puerta del Sol" con il fregio.
Attraversiamo una specie di patio ribassato rispetto al resto del terreno,
delimitato da queste pietre allungate infisse come pali . Vediamo la
"stele 8" e, proseguendo verso il lato sinistro, ci fermiamo davanti
ad una stele antropomorfa rappresentativa dello stile proprio di Tiahuanaco,
chiamata "el Fraile", il "frate", per una vaga somiglianza
con un abito da monaco. Proseguendo oltre, nell'angolo
verso destra della "Calasasaya", andiamo ad incontrare uno dei
manufatti più famosi di tutta l'architettura peruviana: la "Puerta del
Sol" (la porta del sole).
Federico Kauffmann Doig ritiene che probabilmente oggi non sia collocata
nella sua posizione originaria: si tratta comunque di un'opera monolitica
grandiosa di circa quattro metri di larghezza, alta m. 2,75; è stato calcolato
che il suo peso dovrebbe aggirarsi attorno alle 12 tonnellate. Sempre
secondo Kauffmann Doig l'opera, osservando le fitte decorazioni, non sarebbe
stata completata.
La parte iconograficamente più interessante è senz'altro il fregio
principale: è composto da quattro file orizzontali delle quali le tre
superiori sono interrotte da una figura centrale di divinità, che in genere
viene identificata come Huiracocha (o Wira Kocha), la divinità suprema
nella Sierra meridionale e nella regione dell'Altopiano (almeno secondo i
vari frammenti mitologici che ci sono stati tramandati dai cronisti del XVI
secolo). Le tre file superiori contengono ciascuna 8 figure (a destra ed a
sinistra) accostate come si dirigessero dinamicamente verso l'immagine di
Huiracocha. Sono esseri mitici, alati, antropomorfi, che reggono uno
scettro: quelli della fila centrale hanno la testa d'uccello, forse un
condor.
La quarta fila, che occupa la parte inferiore del fregio, contiene 11 figure
contornate su tre lati da una greca: rappresentano altrettante teste di
Huiracocha (con alcuni elementi aggiunti che variano di poco).
Forse la composizione della "Puerta del Sol" deve essere vista
come la trasposizione di un episodio mitologico raccontato con immagini in
forma semplificata. Molti hanno cercato di darne un'interpretazione, a volte
anche molto fantasiosa, ma forse
invece di perdersi in simili tentativi è più interessante coglierne le
relazioni iconografiche che legano Tiahuanaco-Altopiano con altre culture,
prima di tutto quella di Chavín de Huántar.
La
"Puerta de la Luna" di Tiahuanaco.
In primo luogo viene fatto notare la somiglianza del personaggio centrale di
Tiahuanaco con quello rappresentato a Chavín nella "stele Raimondi",
raffigurato in entrambi i casi frontalmente con scettri in
ciascuna mano ed accompagnato da una processione di esseri alati con testa
di falco: fila di esseri alati che ricorda quella del frammento della "Piedra de los
Dieciseis Aves" di Chavín, indipendentemente dalle ipotesi di
ricostruzione che sono state proposte. Altre somiglianze si possono trovare
negli occhi di Huiracocha con quelle specie di "lacrime" sul volto
che hanno un aspetto biomorfo (forse uccelli) che proviene da tempi antichi
e che possono essere arrivate fin qui attraverso le culture di Paracas e
Nasca. Tra gli altri dettagli stilistici dei quali gli studiosi hanno tenuto
conto c'è la presenza delle mani con quattro dita che
si incontra anche negli stili
Paracas-Cavernas e nel successivo Nasca e
Tiahuanaco-Huari: la mano a quattro dita si trasforma in ala d'uccello per
poi riapparire come mano a quattro (o anche a tre) dita.
Siamo alla fine della "Calasasaya". Uscendo dal recinto e
proseguendo incontriamo altri complessi minori che attraversiamo: il "Putuni",
o "Palacio", detto anche "palazzo dei sarcofagi", più
avanti la "Chericala" (anche "Kerikala") ed altre
piattaforme minori nella zona detta delle "piccole piramidi".
In fondo si trova lo sferisterio sul quale è collocata la "Puerta de
la Luna" (la porta della luna), un altro portale monolitico con fregi
più semplici e lineari.
Proseguendo ancora per circa un chilometro e mezzo, oltrepassiamo la linea
ferroviaria lungo la quale sono stati scoperti in anni più recenti alcuni
monoliti, anche antropomorfi (che non andiamo a vedere) e vicino al
villaggio abitato raggiungiamo il "Pumapunco".
L'"Acapama"
era, in origine, una piramide a gradoni, dalla pianta quasi quadrata.
Giunti
sulla sommità, ci si trova di fronte ad una grande depressione al
centro; probabilmente si tratta di un tempio semisotterraneo, una
volta in cima alla piramide, che è sprofondato nel tempo.
E' veramente spettacolare con i suoi enormi blocchi di arenaria tagliati che
costituiscono una specie di piattaforma che, su un lato, ha le pietre
tagliate in modo da ricavarne degli scanni, che alcuni hanno definito
"troni".
Probabilmente si tratta dei resti di una piramide. Attorno sono sparsi dei
pezzi di pietra scolpite che si dice appartenessero a tre distinti monoliti
non più ricomponibili.
Ritorniamo indietro facendo un altro percorso che ci porta a visitare
l'"Acapana", una delle prime strutture che abbiamo notato
entrando, per le sue dimensioni.
L'"Acapana", che altro non vuol dire che "montagna
artificiale", si presenta a prima vista come una collina
naturale. Non si conosce quale sia stata la sua denominazione originaria.
In realtà era, in origine, una piramide a gradoni, con una pianta quasi
quadrata di circa 210 metri di lato.
Attualmente la sua altezza è di una quindicina di metri e noi proviamo a
salirci sopra.
La salita è relativamente difficoltosa: bisogna superare ammassi
disordinati di pietre, ostacolati anche da blocchi di ragguardevoli
dimensioni, guardandosi da fessure o buche nascoste dalla sterpaglia.
In certi tratti, dove erano innalzati dei muri di contenimento, i blocchi
sono più numerosi.
Dal modo con cui fu lavorata la pietra, gli studiosi avrebbero stabilito che
l'"Acapana" sarebbe la struttura più antica tra quelle presenti a
Tiahuanaco.
Arrivati sulla cima godiamo del panorama tutto attorno: le rovine viste
dall'alto, l'altopiano del Titicaca, ma non vediamo il lago,
nonostante debba essere a pochi chilometri di distanza in linea d'aria.
La sommità è piatta, con una vasta e profonda depressione in mezzo, come
un enorme buco. Si ritiene che sopra ci dovesse essere un tempio con degli
ambienti sotterranei ed il tutto sia sprofondato dando origine alla
depressione. Anticamente si pensava fosse una fortezza, ma ormai gli
studiosi sono orientati a ritenere l'"Acapana" un tempio, o un
luogo cerimoniale, posto su una struttura piramidale.
Alle 11.30 siamo alla frontiera di Desaguadero dove, entrando in Perù,
recuperiamo l'ora che avevamo perso due giorni fa per la differenza di fuso
orario che c'è tra Perù e Bolivia.
Noi ci prepariamo ad affrontare la solita trafila burocratica negli uffici
di frontiera boliviani sistemati in baracche su un lato del ponte:
passaporti, controlli, timbri e ... naturalmente un dollaro!
Sul ponte ed attorno il solito caos di persone che vanno e vengono gridando,
di camion che suonano il clacson, di carretti, di auto scassate.
Carlo, senza passaporto, se ne sta vicino all'autobus, mentre Amerigo ed
Edoardo sbrigano i loro controlli con i documenti del bus: sorge un problema
con le carte dell'autobus ed un poliziotto vuole che sia pagata una tassa
per il mezzo. Amerigo ed Edoardo si oppongono e ne nasce una discussione.
Noi ce ne stiamo tutti assieme davanti ai vari funzionari, che invece
vorrebbero una persona alla volta.
In questo momento di discussione vediamo con la coda dell'occhio Carlo
assieme ad un gruppo di contadini che con naturalezza attraversa il ponte.
A questo punto possiamo terminare le nostre sceneggiate: attraversiamo anche
noi a piedi il ponte mentre si affianca a noi il bus con Amerigo ed Edoardo.
Tutti assieme andiamo al posto di polizia peruviano e Carlo denuncia il
furto del suo passaporto avvenuto proprio alla frontiera peruviana, in
territorio peruviano!
Ci vogliono un paio d'ore tra denuncia, firme, timbri, scartoffie varie, ma
adesso Carlo può continuare a viaggiare con noi in territorio peruviano e,
con in mano la copia della denuncia del furto del passaporto, ha tutto il
tempo per richiedere all'ambasciata italiana un duplicato del suo passaporto
per poter uscire dal Perù e rientrare in Italia.
Non so se i poliziotti peruviani si siano bevuti tutta la storiella, certo
che le mance che abbiamo dato loro non le hanno rifiutate.
Mangiamo qualcosa alla frontiera ed alle 13.30 ripartiamo per Puno, senza
più la fretta che avevamo all'andata due giorni fa, ma con tutta calma,
facendo anche soste fotografiche e paesaggistiche lungo la strada.
Ci fermiamo così a Pomata per visitare la Iglesia de Santiago, che
però troviamo chiusa. Vicino c'è una specie di montagnola con dei ruderi:
ci saliamo sopra per godere del paesaggio sul lago Titicaca.
Dopo neppure trenta chilometri facciamo un'altra sosta a Juli. Nella Plaza
de Armas si affacciano alcuni begli edifici, la Iglesia de San Pedro
Martir
e la Casa dell'Inquisizione.
Arriviamo a Puno verso le sei del pomeriggio e ci sistemiamo nell'albergo
che avevamo prenotato. Con gli autisti passo agli uffici dell'Empresa
Roggero per la riconsegna ufficiale del bus. Trascorriamo la serata in un
ristorante di Puno avendo come ospiti i due autisti Amerigo e Edoardo che ci
hanno accompagnato negli ultimi dieci giorni.
Domenica la giornata è libera: si pensava di andare sull'isola di Taquili,
ma il tempo è bruttissimo, piove ed il lago appare molto mosso, se non
tempestoso.
In mattinata in Plaza de Armas assistiamo alla cerimonia
dell'alzabandiera con la parata delle forze armate. Niente di
particolare, lo fanno ogni domenica.
Dopo la visita alla cattedrale, saliamo per una stradina dietro fino al
Cerro Huaisapata, una collinetta dalla quale si domina la città e si
potrebbe vedere il lago Titicaca, se il tempo lo consentisse.
In serata, armati delle migliori intenzioni, andiamo alla stazione dei treni
di Puno per acquistare i biglietti per Cuzco, con l'idea di doverci sobbarcare una lunga (e magari combattuta) fila per la conquista dei posti.
Veniamo invece a sapere che è tutto inutile: i biglietti non ci sono,
essendo stati prenotati da tempo da alcune scolaresche di Lima.
Andiamo quindi ad un'agenzia di viaggi che ci era stata indicata dal
proprietario del nostro albergo: ma anche qui non hanno biglietti di nessuna
classe, né con partenza da Puno, né dalla stazione intermedia di Juliaca.
Così a malincuore siamo costretti a rinunciare all'emozione del viaggio in
treno e troviamo un autobus a noleggio che domani mattina ci farà partire
tutti per Cuzco.
Quindi telefono a Cuzco al proprietario di un hotel per prenotargli le
camere per noi.
Sotto
la neve si caricano i bagagli (ed anche la ruota di scorta) sulla
nostra "carretta".
Un
guasto meccanico.
Il
freddo fa aumentare le nostre "soste fisiologiche".
16
ore di viaggio in queste condizioni.
Alle 8 della mattina siamo pronti con zaini e bagagli in attesa del bus. La giornata è
fredda e nevica, con la neve che cade sferzata dal vento.
Era alle 8 l'appuntamento con il bus che, dopo telefonate e rimostranze da
parte nostra, si fa vedere solo alle 11.
E' un bus piccolo, per ottenere i posti che ci servono si devono
aggiungere due strapuntini (sedili d'emergenza ripiegati). Anche i posti
sono piccoli, a misura di peruviano più che a misura d'europeo.
Comunque è inutile ormai protestare: è questo il mezzo con cui dobbiamo
cercare di raggiungere Cuzco.
Non c'è ovviamente spazio per i nostri bagagli che vengono sistemati sopra
il tetto assieme alla ruota di scorta e ricoperti parzialmente da un telo
(il telo è troppo corto per coprirli tutti).
Con noi ci teniamo il minimo indispensabile, la borsa fotografica o un
marsupio.
Alle 11.30 i preparativi sono terminati, possiamo accomodarci nella nostra
"carretta di Barbie" (come lo abbiamo soprannominato) e partire con
oltre tre ore di ritardo sulla tabella di marcia sotto una tormenta di neve
che ci accompagnerà per alcune ore.
Credo che siamo stati bravi a trovare la carretta più scassata di Puno: si
viaggia attorno ai 30 chilometri orari e non c'è neppure il tergicristallo
funzionante;
l'autista di tanto in tanto rallenta, apre il suo finestrino, e cerca di
pulire il vetro dalla neve con uno straccio.
Un paio di volte il nostro mezzo si ferma per problemi non identificati al
motore: sosta (una manna per noi, perché possiamo sgranchirci le gambe),
l'autista che si affanna nel cofano motore aperto, e ripartenza.
A chiamare allucinante il nostro viaggio è dire poco: è una sofferenza,
anche per il solo fatto di non avere spazio per i piedi: messi lì, dove si
trova posto, non si possono muovere di più di cinque centimetri (distendere
le gambe o accavallarle è utopia).
Quando non ci sono guasti meccanici, a grande richiesta facciamo fermare il
bus per necessarie soste fisiologiche, stimolate dal freddo: non
dimentichiamo che, anche se Cuzco è ad un'altezza inferiore di Puno,
attraversando la catena delle Ande superiamo dei passi oltre i 4.300 metri.
Ed ormai si viaggia che è notte.
Inutile chiederci che bei paesaggi staranno sfilando fuori dei finestrini e
che
per il buio non possiamo vedere: almeno sarebbe stato un motivo di
distrazione.
Alle 3.30 della notte arriviamo a Cuzco, dopo 16 ore di viaggio e quasi 400
chilometri percorsi (fate voi la media!).
Il portiere di notte dell'albergo che avevo prenotato non sa nulla della
nostra prenotazione e ci dice che l'albergo è occupato. Giriamo allora un
po' di alberghi, ma pare che siano tutti pieni.
Finalmente troviamo posto in un hostal: camere con bagno, ma molto
sporco. Veramente anche qui il portiere di notte in un primo tempo ci aveva
detto che era tutto occupato. Poi si è scoperto che le camere c'erano:
forse sapeva che non erano state rifatte e non aveva voglia di farle lui a
quell'ora di notte. Comunque sporche o non sporche (i letti erano stati
usati e quindi le lenzuola non erano pulite) qui ci sistemiamo utilizzando i
nostri sacchi a pelo: sono le 5 di notte (o della mattina).
Il sonno ristoratore viene interrotto dal telefono in camera: è il signor
Renan Bellido Velasco, il proprietario del primo albergo, quello che avevo
prenotato già da Puno: ieri aveva atteso il nostro arrivo fino a tardi, ma
noi non arrivavamo. Poi aveva saputo dal suo portiere di notte di quel
gruppo di italiani che era arrivato di notte ed ha fatto un giro di
telefonate per gli alberghi finché non ci ha trovato. Se vogliamo il suo
albergo è sempre disponibile; può anche mandarci un pulmino a prenderci
per trasferirci da lui. Gli dico subito di sì (tanto questa sistemazione
l'avevamo accettata per una notte perché non c'erano alternative, comunque
oggi avremmo cambiato albergo).
Dopo mezz'ora arriva un pulmino turistico nuovissimo del signor Bellido che
ci trasferisce nel suo albergo, bello e centrale, dove facciamo
un'abbondante colazione. Mi accordo con il signor Bellido per noleggiare il
suo pulmino per i nostri prossimi spostamenti nei dintorni, decidendo di
tenere come base il suo albergo.
In mattinata sono già in stazione per acquistare i biglietti del treno per
il Machu Picchu (scelgo il treno degli indios e non quello speciale
per i turisti) e poi alla compagnia aerea Faucett per la riconferma del
nostro volo Cuzco-Lima del 23 agosto, ma loro non hanno ancora ricevuto il
necessario telex da Lima: dovrò ripassare fra qualche giorno con un elenco
del gruppo che riporti anche i numeri dei biglietti aerei.
A questo punto posso dedicarmi a fare il turista anche io a Cuzco.