Lasciamo Lima per dirigerci verso nord. Purtroppo una serie
di ritardi e di inconvenienti con le compagnie aeree ci fanno partire
quando ormai è quasi l'una.
Cominciamo a percorrere la Panamericana, la lunghissima superstrada che
attraversa le Americhe dall'Alaska per giungere fino alla Terra del Fuoco.
Qui la Panamericana costeggia l'oceano: a destra abbiamo il deserto con la
sabbia e le dune ed a destra c'è subito il Pacifico.
Il nostro autista è molto abile e soprattutto attento: infatti in certi tratti
il vento ha spinto la sabbia sul nastro d'asfalto, che in quei punti
diventa estremamente sdrucciolevole: è quasi come correre su una chiazza
d'olio.
Non è infrequente trovare ai lati della strada delle croci che indicano
le vittime di qualche incidente. Raramente sono delle croci singole, più
spesso sono gruppi di tre, quattro croci: altrettante vittime della strada
in quel punto. Qualche volta le croci sono addirittura a gruppi di decine:
sono interi autobus o camion strapieni di gente che si sono rovesciati.
La toilette al
posto di ristoro di Chasquitambo.
Qua e là resta accanto alle croci anche la carcassa del mezzo, ormai
arrugginita dopo esser stata privata di tutto quello che poteva servire
come pezzo di ricambio.
Sono 193 i chilometri che separano Lima da Pativilca, 193
chilometri che percorriamo in tre ore. A Pativilca abbandoniamo la
nazionale n. 1 (la Panamericana) per prendere a destra una strada che ci
porta verso la Cordigliera.
La strada è costantemente in salita, ma per fortuna il fondo è buono ed
in lunghi tratti anche asfaltato.
Percorriamo un paesaggio andino, chiuso tra le due cordilleras, la blanca
e la nigra: devono il loro nome al fatto che una ha le cime
ricoperte di nevi e ghiacciai eterni, l'altra invece ha un innevamento
stagionale.
Lunga la strada incontriamo ogni tanto dei posti di ristoro, delle
baracche dove ti offrono qualcosa di caldo da mangiare o qualcosa da bere.
Cerchiamo di fermarci una volta sola e la nostra scelta cade su
Chasquitambo, che ci sembra essere il più attrezzato.
Dopo esserci rifocillati risaliamo sul nostro coche. Intanto
assistiamo ad un tramonto di mille colori che infuoca di rosso le cime
delle cordilleras. Sono le otto di sera quando è ormai notte che arriviamo a
Huaraz.
Cominciamo a fare il giro degli alberghi cominciando, ovviamente, da quelli
più economici, ma sembra che siano tutti pieni.
Le
nostre tende su una piazza di Huaraz, vicino alla prefettura.
Huaraz infatti è una
località di villeggiatura molto frequentata da turisti non solo peruviani o
sud americani, ma che vengono anche dal Nord America e dall'Europa. Inoltre
è anche il punto di partenza per chi vuole fare delle escursioni in
montagna in questa zona delle Ande, dal trekking alle scalate.
Girando alla ricerca di un tetto ci rendiamo conto che Huaraz offre luoghi
di divertimento e ristoranti, negozi di articoli sportivi e boutique con
capi di grandi firme ed una folla di gente, prevalentemente giovani. Ma di
camere libere in un qualche albergo neppure l'ombra.
Ci troviamo in una piazza accanto alla prefettura con il nostro bus e
chiediamo a dei poliziotti se ci danno qualche indicazione. Loro non ci
possono far niente, sono affari nostri. Chiediamo allora se possiamo
piantare le tende nello spiazzo erboso al centro della piazza, per passare
la notte. Loro dicono che nulla lo vieta. Ed allora così facciamo: alla
luce dei fari del nostro bus montiamo le tende praticamente davanti alla
prefettura ed al momento di infilarci dentro uno dei poliziotti si avvicina
per augurarci la buona notte e per assicurarci che le sentinelle daranno
un'occhiata affinché nella notte nessuno ci disturbi!
La temperatura durante la notte scende sotto zero, e questo non l'avevamo
previsto. Ci svegliamo lentamente alla mattina: il cielo è terso, azzurro,
ma la piazza con le nostre tende è ancora in ombra, perché il sole deve
ancora sorgere sopra la cima delle montagne che ci circondano.
Ci stiracchiamo e ci muoviamo con una certa lentezza, mentre cominciamo a
raccogliere e mettere in ordine le nostre cose.
Quando il sole finalmente spunta oltre le montagne, comincia velocemente a
riscaldare noi e le tende. C'è anche chi si prepara un caffè con la moka ed un
fornelletto. Io intanto vado a salutare e ringraziare le sentinelle.
Dobbiamo ancora finire di terminare di smontare le tende che il soroche
fa la sua prima vittima: è Bernardina con nausea, mal di testa, vomito,
giramenti di testa ed affanno nella respirazione. E' il mal di montagna:
siamo a 3800 metri che abbiamo raggiunto ieri in quattro ore provenendo dal
livello del mare: è mancato un periodo di acclimatazione ed è da mettere
in conto anche la stanchezza accumulata.
Con uno degli autisti troviamo per lei un posto all'Hostal des Andes, attrezzato
con la bombola d'ossigeno nelle camere.
Intanto raggiungiamo anche l'agenzia che ci deve fornire un minibus per
l'escursione a Chavín de Huantar, che siamo costretti a rinviare a domani. La strada per raggiungere
questa località infatti percorre un lungo tunnel molto stretto nel quale il
nostro bus non riuscirebbe ad entrare ed anche dopo non è praticabile per il nostro mezzo.
Ritorniamo da Bernardina che continua a stare malissimo: con il direttore
dell'albergo si decide di portarla in ospedale dove, dopo una visita
accurata, la rimettono in sesto con l'ossigeno.
Peruviani
in coda in attesa di accedere ai bagni termali di Chancos.
Ci ritroviamo con tutto il gruppo nel Museo archeologico di Huaraz, dedicato
prevalentemente alla cultura Chavín-Sechin.
Qui, tra gli altri reperti, si possono ammirare oltre trecento sculture in
pietra raffiguranti sembianze umane, animali, divinità. Vanno dai 40
centimetri di altezza al metro e mezzo e sono state trovate in diversi siti
del Dipartimento di Hancash.
Troviamo guerrieri, a volte armati di clave, a volte con copricapo, figure
femminili a gambe divaricate: alcuni elementi le avvicinano a quelle della
provincia di Manabì, in Ecuador, mentre per le posizioni delle mani e delle
braccia ricordano le sculture di San Agustin, in Colombia.
Intanto per impegnare la giornata anticipiamo un po' il percorso che avremmo
voluto fare domani e ci facciamo portare verso Yungay, ma ci fermiamo prima
di Carhuaz. Qui, a 27 chilometri da Huaraz, proprio dal centro del villaggio
di Marcarà, c'è una stradina sulla destra che percorriamo prima in autobus
per poi proseguire a piedi per circa un chilometro: arriviamo così a
Chancos, molto famoso per delle gole dove sgorga acqua termale a 70°.
A ragion veduta non merita fare la deviazione perché non si riescono a
vedere le gole, essendo state ingabbiate in strutture di legno che in alcuni casi
assomigliano a delle vere e proprie catapecchie nelle quali si può entrare
a pagamento in gruppetti di cinque o sei persone per prendere i benefici
bagni, dopo aver fatto una coda anche di un'ora.
Si
trascorre la notte negli spogliatoi del campo sportivo della missione
cattolica di Huaraz.
Uno degli addetti si rende conto che non abbiamo alcuna intenzione di
entrare, e quindi di pagare, ed alla fine ci costringe ad allontanarci.
Tuttavia la gita è stata utile: infatti ci ha fatto conoscere a Chancos
padre Pedro Soriani che a Huaraz ha una missione. Si meraviglia che noi non
lo sapessimo: la sua missione è un punto di riferimento per tutti gli
escursionisti e gli scalatori che arrivano fin qui perché per tutti trova
una sistemazione da dormire. Anche a noi offre la sua ospitalità per la
notte, dal momento che in questo periodo dell'anno è vacanza e quindi le
attività della missione sono sospese ed ha spazio disponibile.
Dopo la cena consumata in uno dei tanti locali sulla via principale di
Huaraz, preferiamo riportare Bernardina in albergo, anche se appare del
tutto ristabilita, affinché domani possa essere in forze per una giornata
faticosa.
Raggiungiamo la missione di padre Pedro e qui incontriamo un gruppo di
italiani capeggiato da Gino Bernardi che si appresta a fare un trekking
per le cordigliere. Convenevoli, saluti, scambi di impressioni e di
esperienze e, dopo aver fatto sparire una bottiglia di acquavite locale,
padre Pedro ci sistema nei due spogliatoi del campo sportivo della missione,
con bagni e docce a disposizione.
La
strada verso Chavín attraversa la cordigliera.
All'indomani sveglia all'alba: il minibus dell'agenzia di Huaraz ci viene a
prendere già con Bernardina a bordo. Il nostro autobus con i nostri autisti
invece ci attenderà a Catac, al bivio della strada di Chavín.
La strada, molto stretta, attraversa dei paesaggi brulli di una bellezza
selvaggia.
Poi c'è la galleria: un lungo tunnel rettilineo, stretto, quasi un budello
lungo circa 5 chilometri. Il nostro minibus ci passa appena appena: gli
specchietti retrovisori sono stati ripiegati per dentro ma si procede a
passo d'uomo, con il secondo autista che si sporge, per quel poco che la
parete di roccia gli consente, per controllare con una torcia elettrica
quanto spazio rimane a destra ed a sinistra.
Un'esperienza indubbiamente interessante, ma anche un po' angosciosa, da non
consigliare a chi soffre di claustrofobia (le gallerie di Cu Chi in Vietnam
sono ampie e spaziose in confronto!), eppure necessaria perché resta
l'unico percorso possibile per arrivare al sito archeologico di Chavín de
Huantar.
Sbucati fuori dal tunnel è come entrare in un altro mondo: il colore del
terreno brullo è rosso, probabilmente per il rame contenuto nelle rocce. La
strada scende verso la valle tra curve a gomito e ripidi precipizi. Sotto
una curva vediamo la carcassa bruciata di un minibus ed accanto una dozzina
di croci di legno. Finalmente arriviamo a Chavín.
La
strada scende verso valle, tra la Cordillera Blanca e la Cordillera
Nigra.
Vista
sulle rovine di Chavín de Huantar.
Qui tra la Cordillera Blanca e la Cordillera Nigra, a 3200 metri d'altezza, è nata
nel nono secolo avanti Cristo la
cultura di Chavín che, attorno al 1500, ha avuto la sua massima estensione
diffondendosi dalla Sierra alla costa.
Nella
zona archeologica di Chavín de Huantar.
Le sue origini sono controverse: coincidono con l'introduzione di nuovi
sistemi di agricoltura, di artigianato, di tecniche costruttive e dell'uso
del fuso nei tessuti.
Secondo Julio C. Tello gli antichi abitanti di Chavín provenivano dalla selva
amazzonica dopo esser passati per gli altopiani, ma altri affermano che
invece venivano dalla zona costiera. C'è anche chi ha fatto un'ipotesi
affascinante di provenienza messicana, basandosi sul ritrovamento a Tlatilco
di un sito archeologico contemporaneo a Chavín con notevoli somiglianze;
inoltre anche l'usanza della deformazione cranica è presente nelle due
aree, come la presenza di felini anche nello cultura olmeca. Potrebbero
essere coincidenze, ma anche il ritrovamento di vasellame identico in
Honduas ed in Ecuador a quello di Tlatilco e di Chavín ha portato Evans ed
Estrada a prendere seriamente in considerazione la possibilità di contatti
tre aree centro americane e nord andine.
Anche la religione appare più complessa, fondata sul
culto di una divinità felina che rappresenta il puma, tipico delle
religioni andine, ed il giaguaro, tipico delle religioni amazzoniche.
I templi, le statue ed i bassorilievi di Chavín hanno elementi dominanti
felini, come le zampe, gli artigli, i denti lanciformi.
"El
Lanzón", all'incrocio tra strette gallerie nel cuore del "Templo
temprano" di Chavín de Huantar.
Il complesso cerimoniale di Chavín si trova sul lato sinistro del rio Mosna
che riversa le sue acque nel corso iniziale del rio Marañón. Naturalmente
le costruzioni appartengono a periodi differenti.
Uno degli edifici più importanti è il "Templo temprano", che risale
all'ottavo secolo dopo Cristo, che ha la particolarità di avere una pianta
a forma di "U". Dentro la costruzione si sviluppa su più livelli
un dedalo di cunicoli e di gallerie spesso di difficile accesso.
All'incrocio di alcune di queste gallerie interne, che formano una specie di croce,
è collocata una scultura famosissima: "el Lanzón".
Il nome è stato attribuito per la sua somiglianza con un ferro da lancia
con la punta verso il basso.
Si tratta di un monolito alto 4,60 metri piantato nel suolo e sostenuto in
alto dal tetto dell'angusto ambiente in cui è collocato. Venne scoperto nel
1899.
La sua forma è approssimativamente quella di un prisma triangolare, con i
tre lati ricoperti da moltissime figure. Nel complesso mostra un essere
antropomorfo, con narici e bocca di felino, capelli che si trasformano in
serpenti, la bocca che esibisce due zanne, in alto un gruppo di teste feline
poste in successione, al collo un motivo a greca che rappresenta una
collana, una tunica ricopre il corpo, quattro bocche feline sono situate
nella parte inferiore della tunica, ai lati pendono due teste di serpente
che rappresentano i due terminali della cintura, o della fascia, che cinge
il corpo. Sopra la testa, su ambo il lati di quella specie di rostro con cui
"el Lanzón" è fissato al soffitto, si percepiscono quattro teste
feline unite con due bocche più un'altra testa con bocca che chiude in alto
il gruppo. Federico Kauffmann Doig nel suo "Manual de Arqueología
Peruana" si pone la domanda se questo gruppo di cinque teste possa
avere una relazione con il mito di Pariacaca che «nació bajo la forma
de cinco huevos». La parte superiore del Lanzón corrisponde
sorprendentemente con l'analogo settore della "estela Raimondi",
anch'essa decorata con figure di teste feline che abbiamo potuto ammirare al
Museo Nacional de Arqueología Antropología e Historia del Perù di
Lima e che venne trovata proprio qui da un contadino, tale Timoteo Espinoza,
nel 1873.
Tra le tante meraviglie del sito, mi ha particolarmente attirato
l'attenzione un
particolare, a prima vista insignificante, ma sul quale sono state fatte affascinanti
congetture. Lungo i muri del "Templo temprano", ma anche di altri
edifici del complesso, sono collocate delle sculture cefalomorfe, chiamate
dagli archeologi "cabezas-clavas".
Non tutte sono collocate sui muri, molte sono abbandonate al suolo.
Queste sculture, come tanti altri reperti litici, sono andate disperse:
usate soprattutto come materiale da costruzione da parte dei contadini della
zona, ma anche per costruzioni sia in epoca coloniale che repubblicana.
Altri oggetti magari erano trattenuti a casa dei contadini, come di altri
abitanti, come curiosità, e questo ben prima che cominciasse ad affermarsi
un collezionismo per questi reperti.
Ad esempio è ricordato che alcune "cabezas-clavas" erano visibili sui
pilastri del vecchio ponte di Chavín, prima della sua distruzione.
Nella piazza del paese, fino agli inizi del XX secolo, esisteva un accumulo
di pietre provenienti dalle rovine , per la maggior parte "cabezas-clavas".
"Cabezas-clavas" abbandonate in una galleria del "Templo
temprano" dopo l'alluvione del 1945.
"Cabezas-clavas" ed altri reperti litici della cultura di Chavín raggruppati
nella piazza del paese di Chavín e fotografati da Tello (nel 1919
circa). Da qui Tello li riunì in una cappella che esisteva sopra il
"Templo Tardío" per farla diventare il nucleo del primo
Museo del Sito. Disgraziatamente tutto venne spazzato via
dall'alluvione del 1945.
"Cabeza-clava" ricollocata al suo posto originario.
Julio C. Tello, durante le sue prime esplorazioni del sito nel 1919,
raccolse le varie espressioni di arte litica, tra cui moltissime "cabezas-clavas",
riunendole in una cappella che esisteva sopra le rovine dando forma così ad
un primitivo museo del sito.
Tello, con i suoi collaboratori, fotografarono,
disegnarono ed inventariarono minuziosamente tutto questo.
Disgraziatamente durante una alluvione nel 1945 l'acqua si trascinò via
tutto quanto era contenuto nel "Museo del Sitio" disperdendolo
con la massa alluvionale verso il fiume. Tra i tesori scomparsi si perse
anche la famosa "Stele dei Condor" che venne ritrovata molti anni
dopo irrimediabilmente erosa.
Come abbiamo detto fortunatamente Tello aveva fotografato e catalogato tutto
ed è stato così possibile realizzare delle repliche delle pietre perdute,
comprese molte "cabezas-clavas", che, assieme alla "estela de los cóndores",
sono esposte a Lima nelle sale del Museo Nacional de Arqueología Antropología
e Historia del Perù.
Pobabilmente la maggior parte dei pezzi riuniti fino al 1945 sono andati
persi per sempre. Non così quelli di dimensioni maggiori, come la "estela
Raimondi" e l'obelisco Tello che si salvarono dall'alluvione perché
erano stati portati a Lima, ed "el Lanzón" che venne protetto per la
sua ubicazione all'interno delle gallerie del "Templo temprano".
"Cabeza-clava" ricollocata al suo posto.
Una decina d'anni dopo l'alluvione, negli anni 1955-56, la Direzione di
Archeologia ed il Museo Nacional de Arqueología e Antropología,
sotto la direzione di Jorge C. Muelle, cominciarono a riprendere sul sito di pulizia, riordino e nuove ispezioni.
Oggi solo una parte delle "cabezas-clavas" è ricollocata al posto originario,
molte sono ancora abbandonate a terra, in attesa di una loro collocazione
definitiva.
Ma al di là di questo, resta ancora un mistero: che funzione avevano, a che
cosa servivano?
E' abbastanza chiaro che la loro funzione trascendeva l'aspetto decorativo o
ornamentale. Conosciute popolarmente anche come "guardianes",
le "cabezas-clavas" si differenziano dalle altre decorazioni in stile
di Chavín per la loro caratteristica di "scultura". Tra quelle
esistenti e quelle fotografate da Tello, possiamo dire che rappresentano dei
volti umani, resi animaleschi da qualche particolare zoomorfo: una volta
sono le narici, una volta la bocca, un'altra volta le rughe a forma di
serpentelli. L'espressione è severa, corrugata, quasi per infondere
terrore. Alte da 30 a 70 centimetri, queste teste hanno un prolungamento
dietro per essere assicurate alle pareti nelle quali era previsto uno spazio
per incastrarle.
In
questo disegno tratto da Guaman Poma de Ayala le "cabezas-clavas"
sembrerebbero avere una funzione di forca.
Al di là di un carattere votivo, le "cabezas-clavas" dovevano avere
una funzione "terrorizzante".
Ma non solo.
In base a dei disegni del XVI-XVII secolo di Felipe Guaman Poma de Ayala potevano avere una
funzione di "forche": in un disegno si vede un uomo impiccato ad
una specie di scultura cefalomorfa sporgente da una parete. In un altro si
vede un uomo legato ad una testa che ricorda quelle delle mura di Chavín.
Sarebbe da studiare i vari supplizi in uso in Europa per stabilire se i
disegni di Guamam Poma hanno o meno una ispirazione aborigena.
Un'altra ipotesi potrebbe essere quella di rappresentazioni di teste di
decapitati, magari per sacrifici. Si tratterebbe di teste-trofeo. Il
paragone che viene da fare è con quelle popolazioni amazzoniche che dopo
aver ucciso il nemico espongono le teste decapitate su pali all'esterno del
villaggio: da un lato per mostrare la propria capacità bellicosa e la
propria ferocia, dall'altro per far sì che lo "spirito" del
decapitato vigili sul villaggio stesso tenendo lontani i demoni ed i nemici.
E questo fatto potrebbe essere la dimostrazione ancestrale di quell'altra
ipotesi sulle origini della cultura di Chavín che sarebbe venuta da
popolazioni della selva amazzonica transitate per l'altopiano.
Da ultimo bisogna osservare che quella delle "cabezas-clavas" infisse
sui muri non è una peculiarità di Chavín: la loro distribuzione comprende
le Ande centrali, le troviamo nelle culture di Tiahuanaco e Tiahuanaco-Huari,
ma non solo, anche in Guatemala, El Salvador, Messico, con diverse
datazioni.
Il
monte Huascaran (m. 6.768).
Per tornare ad Huaraz non ripercorriamo la strada di prima, ma quella a sud
che ci porta a Catac dove troviamo il nostro autobus con i nostri autisti,
Victor Martinez e Felix Laura.
Oggi c'è da correre per recuperare sul nostro calendario di viaggio.
Attraversiamo di corsa senza fermarci Huaraz, superiamo anche il bivio per
Chancos. Tra i panorami straordinari che godiamo, sempre viaggiando tra le
due Cordigliere, la blanca e la nigra, in prossimità di
Yungay abbiamo una splendida
visione del monte Huascaran sulla destra che con i suoi 6.768 metri è la
cima più alta del Perù.
Yungay è una cittadina che è restata sepolta da
una spaventosa valanga, della quale vediamo ancora delle tracce: si
salvarono solo tre palme nella piazza principale e la statua bianca di un
Cristo che era collocata nel vecchio cimitero.
Noi però non possiamo fermarci e proseguiamo la nostra corsa dentro il "calleyon":
lo chiude la cittadina di Caraz (a 2.285 metri d'alezza) dominata dallo
Huandoy (6.356 metri), una montagna caratterizzata da quattro cime.
Sappiamo che tra le curiosità di Caraz c'è il "manjiar blanco",
un dolce molto zuccherino, ma lo lasciamo a chi ne ha voglia perché non
possiamo permetterci soste, se non le minime necessarie, fisiologiche.
Attraversiamo una cordigliera e comincia la nostra discesa verso l'oceano in
prossimità del quale ci immettiamo nuovamente sulla Panamericana.
E' quasi mezzanotte quando giungiamo a Trujillo, ma questa volta, grazie ai
nostri autisti, troviamo delle camere che Victor e Felix avevano prenotato
telefonicamente in un albergo che loro conoscevano.
Trujillo fu la prima città del Perù a proclamare la propria indipendenza
nel 1820. Era stata fondata nel 1534 da Diego de Almagro che le diede questo
nome in onore della città spagnola dove era nato Francisco Pizarro.
Il
complesso di Chanchán, presso Trujillo, con le sue fragilissime mura
in "adobe".
Di prima mattina raggiungiamo a meno di 5 chilometri le rovine della
cittadella di Chanchán che si affacciano sull'oceano, nelle vicinanze della
spiaggia di Huanchaco. Chanchán è l'antica capitale del regno Chimú che
fiorì nella valle del Moche per circa 650 anni.
Quelle Chimú e Mochica sono due culture diverse, separate tra loro da
secoli e dall'occupazione da parte della cultura Tiahuanaco-Huari. La
confusione che si fa a volte tra Chimú e Mochica deriva prima di tutto
dalla lingua che era parlata dai Chimú, un idioma che è conosciuto come
lingua "Mochica", e con questo termine vengono popolarmente
chiamati anche i discendenti attuali di quelli che formarono i regni Chimú.
Gli archeologi definiscono poi Mochica la cultura precedente a quella Chimú,
che si era sviluppata precedentemente alla Tiahuanaco-Huari.
All'arrivo degli spagnoli, i Chimú della valle del Moche raccontarono le
loro origini mitologiche ad un cronista anonimo che le trascrisse in una
cronaca databile tra il 1604 ed il 1610.
Secondo questo manoscritto Tacaynamo arrivò alla valle del rio Moche dove
fondò una dinastia di governanti. Partendo dal Moche essi cominciarono a
sottomettere le popolazioni delle valli vicine, da Tumbes fino a Pativilca,
arrivando a fare incursioni verso Lima, da dove però furono respinti e
sconfitti a Maranga.
Oggi le rovine di Chanchán sono ancora soggette a ricerche archeologiche, ed in gran parte
sono precluse alla visita. Tuttavia, considerando che occupano un'area di
circa 20 chilometri quadrati e che solo una piccola parte è protetta da
recinzioni, praticamente si può girare dappertutto.
A dire il vero molte di queste mura ci sembrano pesantemente restaurate, se
non addirittura ricostruite. Per tutto il resto sono mozziconi di mura erosi
sui quali si può addirittura camminare e salire contribuendo alla loro
distruzione.
Nonostante si sia
entrati pagando regolarmente il biglietto, molti visitatori entrano liberamente dalla
parte della spiaggia calpestando senza alcuna precauzione le
fragili mura erette 7-8 secoli fa.
La fragilità di queste mura è dovuta alla particolare tecnica costruttiva,
chiamata "adobe".
Si tratta di un impasto di fango argilloso, sabbia e paglia secca ricavata
da sterpaglie e steli di piante di mais. Questo impasto non veniva cotto, ma
semplicemente essiccato al sole.
Una
decorazione su un muro di Chanchán presenta il motivo iconografico
della nutria marina.
Con questo materiale venivano costruiti mattoni, muraglie, abitazioni, depositi
e magazzini, palazzi e templi che fanno di questo sito la città
archeologica di mattoni crudi più grande del mondo.
Molte superfici venivano poi decorate con figure e motivi geometrici a
rilievo di fango (o meglio di "adobe").
La vastità della città assieme all'incertezza sul significato del nome
Chanchán lascia aperte molte ipotesi sulla sua natura.
Si suppone innanzitutto che il luogo fosse abitato precedentemente ai Chimú
ed è stata considerata una "città di cittadelle", residenza
dell'ultimo governatore dei Chimú, sottomesso dagli Incas nel XV secolo.
Queste "cittadelle" sono chiuse da alte mura in adobe che
superavano i sette metri di altezza, lunghe anche settecento metri,
attraverso le quali si poteva entrare per un'unica apertura (caratteristica questa anche della cultura
Tiahuanaco-Huari).
All'interno delle mura, oltre che palazzi ed abitazioni, c'erano giardini
irrigati, piazze, strade, cimiteri con piramidi, e file di costruzioni
modulari a celle che per somiglianza sono state chiamate "prisiones".
Molto si è detto sul significato di queste "ciudadelas" che
compongono Chanchán.
Una delle ipotesi più accreditate considera che le diverse cittadelle altro non
fossero che i diversi centri di potere dei vari governatori della dinastia
di Tacaynamo che si sono succeduti fino all'incorporazione nell'impero
incaico.
Una volta che moriva uno di questi, il suo palazzo veniva chiuso,
sigillato, con tutti i suoi servitori all'interno che così potevano
continuare a servire il loro padrone nell'aldilà.
In pratica il "palacio" veniva trasformato in un immenso
catafalco.
Il governatore successivo faceva costruire un nuovo palazzo in un'altra
area, dove riuniva i suoi familiari, la servitù, le concubine, i sacerdoti,
tutta la sua corte.
La popolazione occupava i settori adiacenti a queste cittadelle, vivendo in
case precarie, i cui resti tuttavia sono stati individuati dagli archeologi.
E così fino a quando anche questo governatore non moriva, facendo
trasformare tutta la cittadella nel gigantesco sepolcro proprio e di tutta
la servitù.
Camminiamo per queste rovine in una ventosa e soleggiata giornata fino all'ora
dell'appuntamento con il bus ed i nostri autisti.