Uno degli
aeroplani a quattro posti (pilota più tre passeggeri) con i quali
abbiamo sorvolato il deserto di Nazca.
Ci sono tre compagnie aeree che propongono i voli sul deserto di Nazca per
ammirare dall'alto i famosi geoglifi. Non abbiamo il tempo per contattarle
tutte e ci prenotiamo il volo per l'indomani mattina con l'Aereocondor che
ci risulta essere la più organizzata.
Dopo la cena in città si va all'aeroporto, dove l'Aerocondor ha un
complesso turistico molto accogliente, costruito di recente, con piscina,
ristorante e camere. Si può liberamente campeggiare sul prato: i ragazzi
che lavorano nel complesso ci offrono gratuitamente quattro camere vuote,
dove possiamo sistemarci con i materassini usufruendo di bagni e docce. Ci
sistemiamo per la notte in maniera ibrida, chi si paga la camera, chi
usufruisce delle camere vuote e si porta il materassino, chi monta la tenda
fuori.
Alla mattina siamo i primi a volare quando il sole è ancora relativamente
basso e quindi allungando le ombre fa risaltare meglio le linee dei geoglifi.
Gli aerei a nostra disposizione sono tre da tre posti (tre passeggeri più
il pilota) e quindi faremo due turni di volo, ciascuno dei quali dura circa
quarantacinque minuti.
Linee
sul deserto di Nazca, in prossimità del disegno del
"ragno".
Il pilota che capita a me è un omaccione grande e grosso: dà un'occhiata
ai suoi tre passeggeri e quindi ci dispone sui tre posti disponibili
valutando il nostro peso ad occhio. L'interno è ancora più angusto di
quello di una Fiat 500: pilota davanti a sinistra, un passeggero a destra e gli
altri due rannicchiati dietro.
Volare su questi aeroplanini piccoli dà veramente la sensazione di volare,
di librarsi con il corpo nell'aria, soprattutto per chi, come noi, ha avuto
esperienze di volo solo con i grossi apparecchi di linea.
Dopo la rincorsa sulla pista dell'aeroporto, di colpo l'aereo si impenna e
sale di quota.
Non sappiamo valutare a quale altezza ci troviamo: sotto di noi scorre un
panorama desertico, formato da basse montagne brulle e tratti di pianura
altrettanto desertica.
Non ci pare di vedere vegetazione, e d'altra parte questa è una zona dove
le precipitazioni di pioggia sono praticamente a zero da tantissimi anni.
Cominciamo a distinguere linee di diverso colore, forme lunghe rettangolari
o trapezoidali.
Il
disegno del "colibrì".
Il pilota ci porta però a sorvolare dei monti e sulle pendici di uno
di questi ci fa osservare disegnata una figura vagamente ominide: stando
alla sua spiegazione raffigurerebbe un astronauta!
Sorvoliamo adesso figure più precise: linee curve che intersecano altre
linee: sono le tracce lasciate dai fuoristrada di curiosi, vandali e
burloni.
Ma non occorrevano i vandali per alterare questo insieme di figure: ci hanno
pensato anche i costruttori della Panamericana che, lo vediamo molto bene
dall'alto, taglia in maniera rettilinea la pianura in due, e con essa linee,
disegni geometrici ed anche la raffigurazione di un uccello.
Il pilota è molto professionale: compie sempre due passaggi sopra le figure
più importanti, in modo che possiamo ammirarle sia da finestrini di destra
che di sinistra.
Sotto di noi scorrono così immagini che avevamo visto solo riprodotte sui
libri: la balena, il pappagallo, il condor, l'albero, il colibrì, il
ramarro, il coyote, la
scimmia, il ragno e naturalmente tante linee, spirali, trapezi, triangoli, tutti con
la forma allungata, e altri ancora.
Il
disegno della "scimmia" con la coda arrotolata a formare una
spirale.
Il
disegno del "ragno".
Il
disegno del "pappagallo" probabilmente tracciato prima della
lunga figura geometrica che lo attraversa.
Il
disegno di un altro uccello.
Complessivamente si tratta di oltre un centinaio di disegni geometrici
assieme a quasi una ventina di disegni ornitomorfi, una decina di figure
zoomorfe, figure antropomorfe e altre di incerta identificazione.
Le dimensioni di queste immagini sono le più varie: ci sono linee rette che
arrivano a 10 chilometri di lunghezza, altre di soli 4 metri; le "pistas",
ovvero rettangoli o figure triangolari e trapezoidali, possono essere di
soli 4 metri quadrati come giungere a mille metri quadrati; infine le figure
di animali che variano dai 15 ai 300 metri.
Il bacino che sorvoliamo, posto tra i rilievi bassi vicino al mare e la
catena andina più lontana, si è riempito di materiali scesi dalle montagne
nel corso di migliaia di anni. Dopo che il vento ha soffiato via tutta la
parte polverosa, è rimasta una superficie dura di ciottoli e sassi che,
ossidandosi, hanno assunto una colorazione scura bruno-rossastra.
Le "linee" sono state tracciate rimovendo queste pietre, di
tonalità scura, che sono state spostate ai lati, scoprendo in questo modo
lo strato sottostante a 20-30 centimetri di profondità, non ossidato, più chiaro. Grazie al fatto che in
questa zona le precipitazioni piovose sono trascurabili e l'ossidazione
delle aree scoperte è molto lenta, la differenza di colore si è mantenuta
come doveva essere duemila anni fa.
Queste linee furono esaminate per la prima volta nel 1926 da T. Mejía
Xesspe che ipotizzò potessero essere degli antichi percorsi sacri.
Vennero riscoperte tredici anni dopo, nel 1939, da Paul Kosok che annunciò
trionfalmente che ci trovavamo di fronte a «el calendario de mayor escala
en el mundo.»
Maria Reiche, una matematica tedesca, si entusiasmò al "mistero"
di Nazca e ne fece la sua unica ragione di vita: compilò la mappa più
completa del sito, lavorando sul campo si batté contro i vandali che
scorrazzavano in moto o con i fuoristrada deteriorando i disegni, costruì a
lato della panamericana una torretta di osservazione, compì misurazioni ed
osservazioni di ogni sorta. Le sue conclusioni furono che si trattava di un
gigantesco calendario con vari segni astronomici, compilato da popolazioni
della cultura Paracas-Nazca, che usavano una unità di misura
di 130 centimetri.
L'astrofisico Gerald Hawkins tuttavia dimostrò che le linee non
presentavano alcun allineamento astronomico significativo. Inoltre la zona
di Nazca si presta assai poco all'osservazione del cielo, per la foschia e
le nebbie persistenti che non consentono una buona visibilità. Di notte
poi, con il buio, le linee tracciate al suolo difficilmente avrebbero potuto
indicare qualche stella, risultando invisibili.
Anche Maria Reiche, negli ultimi anni, ha modificato le sue convinzioni,
considerandole itinerari cerimoniali con qualche fine calendariale.
Attualmente gli archeologi sono orientati a considerare i geoglifi di Nazca
come percorsi cerimoniali sacri, tornando così alla primitiva ipotesi
formulata per la prima volta da T. Mejía Xesspe, con una qualche connessione con la credenza degli spiriti.
Anche in altre popolazioni, come gli Inca, che successero al popolo di Nazca,
troviamo correlazioni tra linee sacre e poteri spirituali. Linee immaginarie
si irradiavano dall'Inticancha, il tempio del Sole nella capitale incaica di
Cuzco, verso tutti i punti dell'impero e la stessa città di Cuzco
rappresentava un simbolico felino
del quale le mura di Sacsahuaman erano la criniera.
I disegni furono tracciati da una cultura preincaica che si era stanziata
nella valle di Nazca dove prosperò tra il 200 a Cr. ed il 600 d. Cr. I
resti materiali di questa cultura, come i tessuti, presentano disegni del
tutto analoghi a quelli tracciati sul deserto.
Molti luoghi comuni si sono diffusi passando di bocca in bocca (e con la
complicità di qualche scrittore che non ha verificato le sue asserzioni)
circa certe presunte particolarità di questi geoglifi.
Si dice, ad esempio, che questi disegni si possono vedere solo dal
cielo.
Questo non è vero. I disegni si possono vedere dalle colline vicine.
Si dice che che sono opere di fattezze tali da non poter essere realizzate
da gente di duemila anni fa.
Anche questo non è vero: molti disegno hanno somiglianze stilistiche con
quelli della cultura Paracas-Nazca che ha prodotto espressioni artistiche
molto sofisticate che richiedono un talento maggiore di quello delle linee.
Si dice che le figure rappresentate nei geoglifi sono in scala perfetta,
troppo precisa.
Non è vero: sono in scala solo in termini generali, nei particolari ci sono
numerosi errori.
Si dice che è impossibile riprodurre figure bidimensionali in così grandi
dimensioni.
Anche questo non è vero: non è difficile riprodurre in grandi dimensioni
disegni piccoli, senza ricorrere a tecniche sofisticate. Basta qualche
paletto di legno e della corda. Non a caso sono stati ritrovati dei resti di
questi picchetti che, all'esame con il radiocarbonio, sono stati datati
attorno al 525 d. Cr.
Da ultimo bisogna ricordare che esistono geoglifi giganti in altri parti del
mondo. Per restare entro i confini del Perù: le linee giganti tracciate
nelle zone dell'altopiano e visibili solo dall'aereo, quelle di Canto Grande
(Lima) ed alcune figure come il "Cóndor de Oyotún" (chiamato
anche "Hombre-Ave de Oyotún").
Con tutto questo, i geoglifi di Nazca restano il complesso più importante di
questo genere.
Il
"certificato di volo" sul deserto di Nazca.
Quello
che resta di mummie distrutte dai "tombaroli" in cerca di
oggetti preziosi: ossa, frammenti di stoffa, cappelli, materiali di
riempimento.
Ossa,
stoffa e cappelli al "Cementeiro" di Nazca.
Si
cerca se, con un po' di fortuna, si riesce a trovare qualche frammento
significativo di ceramica.
Dopo il volo ci facciamo portare da Amerigo ed Edoardo in autobus nella zona
chiamata "el cementerio", così chiamata per le numerose
tombe che vi sono state trovate.
Qui purtroppo non hanno lavorato solo gli archeologi, ma già prima di loro
ci sono stati i tombaroli, attratti dagli oggetti d'oro che potevano trovare
nelle sepolture.
E purtroppo è stato lo scempio.
Loro infatti hanno scavato con ogni mezzo (anche con trattori e bulldozer)
per scoprire tombe, lasciando sul campo tutto quello che non era oro.
La devastazione ha fatto sparire centinaia di tombe, di "fardos
funerarios", di ceramiche, oggetti minuti, stoffe: insomma tutto quello
che non era d'oro è stato ignorato, devastato, distrutto. "El cementerio" si presenta come una spianata desertica piena di ossa
umane provenienti dalle mummie smembrate, scheletri e teschi fatti a pezzi,
frammenti di cuoio capelluto cui aderiscono ancora capelli e trecce,
brandelli di tessuti e tanti, tanti cocci più o meno decorati.
Qualcuno di noi prova a scavare con le mani tra la sabbia: con qualche
fortuna, come è capitato a Luigi, si possono trovare ancora pezzi di
ceramica significativi da ricomporre ottenendo quasi il 50 % dell'oggetto.
Fortunatamente gli archeologi sono riusciti ugualmente a trovare delle tombe
intatte ed a recuperare gran quantità di materiale di questa cultura, più
nota al grande pubblico solo per le linee ed i geoglifi che ha tracciato nel
deserto.
Della ceramica sono state distinte varie fasi e vari periodi, che vanno
dalla fase iniziale dei primi secoli della nostra era fino a quella tarda
dei secoli VII-IX quando la vediamo disperdersi irradiandosi fino alla
Sierra, nella zona di Ayacucho, dove poi subirà l'impatto con lo stile
"Tiahuanaco" dell'altopiano, dando origine in questo modo allo
stile chiamato "Huari" che si imporrà sopra quello di "Nazca".
Dopo aver pranzato al ristorante dell'aeroporto, ripartiamo alle 14 per
Arequipa.
Il viaggio è lungo, sono quasi 600 chilometri sulla Panamericana che non
consente grandi velocità.
In compenso per gran parte del viaggio costeggiamo l'oceano Pacifico e fino
a quando c'è luce godiamo di bei panorami che culminano nel momento del
tramonto.
Ad ora di cena ci fermiamo che siamo appena a Camanà, dove per
ricompensarci del viaggio ci ristoriamo con piatti di "camarones".
A tavola prendiamo in considerazione di poterci spingere fino ad Arica in Cile e da
qui raggiungere Calama per entrare in Bolivia attraversando i "salares"
di Uyuni: fatti i conti si
potrebbe fare considerando che si risparmierebbe il doppio tragitto tra Puno
e La Paz riuscendo così a compensare parzialmente il maggior tempo
necessario, ma gli autisti ci
fanno osservare che il nostro autobus non ha i permessi e l'assicurazione
per l'attraversamento del Cile. Niente da fare.
Ripartendo nel buio neppure ci accorgiamo che la Panamericana ha abbandonato
la costa per piegare verso l'altopiano.
Il
"bagno privato" del nostro albergo consisteva in vasi da
notte con il numero della camera!
Sono le due di notte quando arriviamo finalmente ad Arequipa: non è neppure
da pensare di metterci a cercare un albergo! Allora la soluzione che
troviamo è quella di passare il resto della notte dentro i nostri sacchi
stesi nella sala d'aspetto della stazione degli autobus.
Alle 7 ci mettiamo alla ricerca di un albergo: non è un'impresa facile
perché la città è piena di turisti. Alla fine troviamo una sistemazione
all'Hotel Metro, provvisto di camere tutte con bagno privato. Alla fine
scopriamo che il bagno privato consiste in vasi da notte in ferro smaltato assegnati
ad ogni camera che possono venire svuotati nel bagno collettivo al piano!
Mentre i nostri autisti portano il bus in officina per una messa a punto,
cerchiamo di telefonare a Puno, prossima tappa del nostro viaggio, per
prenotare presso un albergo del quale avevamo l'indirizzo: dopo oltre un'ora
di attesa per avere la comunicazione non troviamo il proprietario; sarà da
riprovare in serata, comunque non accettano prenotazioni senza il pagamento
anticipato.
Rimandiamo a domani la visita dei dintorni della città, quando avremo l'autobus: intanto
visitiamo il centro.
Arequipa si trova a 2.350 metri di altezza ed è la seconda città del
Perù.
Venne fondata nel 1540 da Manuel Garcia de Carbajal. Il suo nome però è
precedente alla colonizzazione spagnola e deriverebbe dalla frase che
avrebbe pronunciato il quarto re inca Mayta Capac rivolto ai suoi guerrieri
che gli avevano chiesto di poter fare una sosta in quel luogo così
accogliente: «Ari quipai» che possiamo tradurre dal quechua
come "fermiamoci qui".
La
Plaza de Armas di Arequipa.
Arequipa è circondata da tre vulcani, il Misti (5.822 metri), il Chachani
(6.075 metri) ed il Pichu Pichu (5.664 metri) che si possono ammirare dal
quartiere di Yanahuara e Cajma. E' anche chiamata la "città bianca", per
il colore dei suoi edifici di epoca coloniale costruiti con una pietra
vulcanica di colore chiaro, il "sillar", proveniente dal
materiale prodotto dal vulcano Chachani. Alcuni hanno
ipotizzato una diversa origine di questo soprannome: all'epoca della
colonizzazione spagnola, gli indios locali, di carnagione scura, erano stati
espulsi dal centro della città dove potevano girare solo gli spagnoli, di
carnagione bianca.
Dalla centrale "Plaza de Armas" visitiamo la Cattedrale con tutti
gli edifici barocchi circostanti, le chiese di "San Francisco", di
"Santo Domingo" e della "Compañía".
Ma soprattutto visitiamo il "Monasteiro de Santa Catalina",
una vera città nella città di ventimila metri quadrati. La visita non può
durare meno di due ore e mezza.
Un
chiostro interno del "Monasteiro de Santa Catalina".
Il Viceré Francisco Toledo, durante una sua visita ad Arequipa, aveva
autorizzato la fondazione di un "Monasterio de Monjas Privado de la
Orden de Santa Catalina de Siena" (monastero di monache dell'ordine
di S. Caterina da Siena). Qualche anno dopo una ricca e giovane signora, Doña
Maria de Guzmán, che era rimasta vedova di Diego Hernández de Mendoza, non
avendo figli, decide di ritirarsi nel monastero che era ancora in
costruzione, cedendo al monastero tutti i suoi beni.
Il 10 settembre 1579 viene fondato ufficialmente il monastero, nominando Doña
Maria «primera pobladora y priora de dicho Monasterio»; un anno
dopo, domenica 2 ottobre 1580, viene celebrata una messa solenne durante la
quale Doña
Maria de Guzmán, che viene riconosciuta fondatrice del monastero, prende
formalmente i voti.
Nel 1582, a seguito di un tremendo terremoto che colpì Arequipa, il
monastero subì gravissimi danni cui cercarono di porre rimedio le stesse
monache.
I successivi terremoti che periodicamente lo colpirono con le conseguenti riedificazioni mutarono profondamente la struttura del complesso, che restò
però sempre di un inconfondibile stile fondamentalmente coloniale: una
fusione tra elementi spagnoli e nativi.
Le famiglie di appartenenza delle monache al posto del dormitorio
danneggiato fecero costruire delle celle private, delle vere e proprie
abitazioni indipendenti all'interno del complesso. Le monache più facoltose
potevano avere delle domestiche a servizio ed anche una cucina personale che
consentiva loro di evitare il refettorio comune e di godere di una maggiore
intimità. Insomma, la clausura non era proprio sempre rispettata!
Scorci
all'interno del complesso del "Monasteiro de Santa
Catalina".
Vicoli
e scale all'interno del complesso di Santa Catalina.
Ci perdiamo a passeggiare per le viuzze ed i chiostri di Santa Catalina.
Dopo il portone d'ingresso sovrastato da un bassorilievo raffigurante Santa
Caterina da Siena, incontriamo il "Chiostro degli Aranci", così
chiamato per alcune piante di aranci, dove tre croci ricordano che al
Venerdì Santo le monache fanno una rappresentazione della Passione. Nel
"Patio del Silenzio" le monache si riunivano a recitare il Rosario
ed a leggere la Bibbia in assoluto silenzio; giungiamo così al
"Chiostro Maggiore" dei primi decenni del XVIII secolo,
caratterizzato, tra l'altro, da 32 dipinti dedicati alla vita di Maria (23)
ed a quella di Gesù (9).
Attraverso pittoresche vie interne, che hanno un proprio nome, come
"calle Cordóva", "calle Sevilla", "calle Burgos",
giungiamo alla cucina del monastero: l'edificio che la ospita forse in
origine era stato progettato per una cappella, come dimostrerebbe l'enorme
cupola che la sovrasta. Si possono vedere gli utensili originali in uso
all'epoca.
E' poi la volta della lavanderia: venti tinozze di legno sono collegate ad
un canale centrale; spostando una pietra si potevano riempire le singole
tinozze mentre per svuotarle si rimuoveva un tappo sul fondo di ciascuna e
l'acqua veniva convogliata ad un canale sotterraneo che arrivava fino al
fiume.
Terminiamo la visita con la chiesa sovrastata dal campanile ricostruito nel
1748: anche la chiesa è stata ricostruita numerose volte, a seguito del
succedersi dei terremoti, ma sempre ripetendo le forme e le dimensioni
originali di quella costruita nel 1660.
Rientriamo nel nostro albergo alla sera, tutti pronti per farci la doccia:
l'acqua calda è disponibile solo a fasce orarie, ora dovrebbe esserci.
Mi bagno sotto la doccia, corpo e cappelli, mi insapono e mi faccio lo
shampoo: al momento di riaprire l'acqua della doccia, non c'è più quella
calda, e l'acqua fredda è veramente gelida! Mi tolgo gran parte del sapone
e dello shampoo con un asciugamano, alla meno peggio! Ma non sono proprio al
massimo della presentabilità.
Dopo la disavventura sotto la doccia, proviamo a telefonare nuovamente
all'albergo di Puno: dopo due ore di attesa non riusciamo ad ottenere la
linea.
Ci consoliamo con un sontuoso piatto di "camarones a los siete
sabores" e poi tutti a nanna.
Nella mattinata si gironzola un po' senza meta per il centro di
Arequipa, a
respirarne l'atmosfera, il clima, ammirare le facciate dei palazzi nobiliari,
poi ci facciamo portare dal nostro bus nel quartiere periferico di Yanahuara,
da dove si può godere di una bella vista panoramica della città, della
campagna e dei vulcani circostanti.
Vista sui vulcani
lungo il canyon del rio Chili.
Nella piazza, oltre ad una interessante chiesa, possiamo assaggiare una
specialità del posto, il "cuì", cioè il porcellino d'India;
beviamo anche la "chicha" rossa, molto rinfrescante.
Poi ci spostiamo in un altro quartiere della periferia, Cayma, con un altro
bel panorama da vedere e la chiesa della "Virgen de la Candelaria".
Proseguiamo per la strada che porta fuori della città, costeggiando il
canyon del rio Chili ed abbiamo un'altra bellissima vista dei tre vulcani,
nell'ordine da sinistra a destra (ed anche in ordine decrescente di altezza)
il Chachani, il Misti ed il Pichu Pichu. Verso il tramonto il Misti si
colora di viola sotto i nostri occhi.
Rientriamo in città abbastanza presto per andare alla ricerca del
ristorante per la cena: piatti locali molto ricchi a base di carne (e "cuì").
La sveglia suona presto, alle 3 della notte, per essere pronti alla partenza
che avviene puntuale alle 4: oggi ci aspetta la "puna", una
dura strada di montagna che alle 6 di mattina ci porta nell'altopiano già a
4.000 metri d'altezza.
Il
vulcano Misti alla luce rosata del tramonto.
Il
"salar".
Il panorama è brullo, la vegetazione praticamente assente, se si escludono
qualche ciuffo d'erba gialla ed i licheni.
Ogni tanto incontriamo dei gruppi di lama, alpaca e guanachi che i nostri
autisti cercano di insegnarci a distinguere, con scarso successo: raramente
azzecchiamo di che animali si tratti.
All'improvviso, fatte un paio di curve, inaspettata si apre davanti a noi
una distesa liscia e bianca: è un "salar", un lago di sale
a 4.000 metri di altezza.
Non ha le dimensioni dei "salares" di Uyuni o di Atacama,
ma basta per farci restare senza parole, in preda allo stupore.
Durante i mesi aridi tra maggio e dicembre il lago si trasforma in questa
piatta distesa di sale, di un candore che a prima vista potrebbe essere
preso per ghiaccio.
L'effetto è fantastico, il sole si riflette mille volte
su ogni punto del "salar" moltiplicandosi, diventando mille
soli.
Superato il "salar" scorgiamo sulla sinistra le prime case
da quando siamo sull'altopiano andino: povere abitazioni basse con un
recinto per i lama, che stanno cercando di trovare qualcosa da mangiare sul
suolo poco distante.
Anche noi dobbiamo mangiare, ma in previsione della strada che avevamo da
fare oggi ci siamo portati via qualcosa da mangiare al sacco, che ci eravamo
fatti preparare in albergo.
Poco dopo ci ospita in questa landa desolata una specie di stazione di
controllo disabitata ed apparentemente abbandonata.
Il nostro viaggio riprende con ancora le visioni dei vulcani e del "salar"
negli occhi: finalmente siamo a Yuliaca e poi arriviamo a Puno dopo quasi 14
ore dalla nostra partenza.