L'ignoranza
popolare sulle cause delle pestilenze portò ad attribuire la loro
diffusione ai "non-morti". Lo scheletro di una donna ritrovato
nel Lazzaretto Nuovo di Venezia ci dimostra che quel cadavere venne
creduto essere un vampiro.
Il
Lazzaretto Vecchio come è raffigurato nell'«Isolario nel qual si
ragiona di tutte le isole del mondo...» di Benedetto Bordone (1528).
Il Lazzaretto Nuovo di Venezia, vicino all'isola di Sant'Erasmo nella
laguna di Venezia, deve il suo nome "nuovo" per distinguerlo da
quello preesistente, che per questo è chiamato "vecchio", sorto
nel 1423 sotto il dogado di Francesco Foscari su un'altra isola della
laguna vicino al Lido, dove esisteva dal X secolo una chiesa, dal 1429
retta dagli Eremitani Agostiniani che vi tenevano un ospizio per aiutare i
pellegrini più poveri e bisognosi di Terra Santa.
Nel corso del XV secolo quest'isola diventò ricovero per la
gente colpita da malattie contagiose.
La chiesa, che dava la denominazione anche all'isola, era dedicata a Santa
Maria di Nazareth: per la deformazione della parola Nazareth ("nazaretum")
si cominciò a chiamarla semplicemente "lazaretum" e fu
il primo lazzaretto della Repubblica di Venezia. Così il nome
"lazzaretto" si diffuse ad indicare ovunque tutti gli ospedali
per le malattie infettive.
Il
Lazzaretto Vecchio di Venezia come appariva a metà del XVIII
secolo, in una incisione di Francesco Zucchi in «Teatro delle
fabbriche più cospicue in prospettiva sì pubblica che
privata» (circa 1740).
Il
Lazzaretto Nuovo come è raffigurato nell'«Isolario nel qual si
ragiona di tutte le isole del mondo...» di Benedetto Bordone (1528).
Ben presto fu sentita la necessità di dare una soluzione al problema di
separare i sopravvissuti al contagio da chi invece era ancora affetto
dalla patologia.
Nel 1456 si cominciò a discutere nel Senato della Repubblica di
utilizzare una seconda isola per «...illi qui liberantur a morbo di Nazareth...»
in modo che potessero trascorrere un periodo di contumacia (come veniva
chiamata la quarantena) «...habeant reductum purificatorem...» prima di
rientrare nella vita sociale.
Dopo non poche proposte ed incertezze (che durarono ben dodici anni!) nel
1468 venne fatto erigere il Lazzaretto Nuovo, nell'isola chiamata
"della Vigna Murata" di proprietà dei frati di S. Giorgio,
inizialmente per la quarantena dei guariti di peste.
Durante la pestilenza degli anni 1575-77 il Lazzaretto Nuovo visse
probabilmente uno dei momenti più drammatici nella storia della
Repubblica: dal 1° luglio 1575 al 28 febbraio 1577, su una popolazione di
circa 180 mila persone che abitavano a Venezia, si registrarono 46.721
morti di peste.
Francesco Sansovino, che venne ricoverato in contumacia (quarantena) per
22 giorni al lazzaretto in quanto aveva avuto in famiglia due casi di
appestati, la moglie Benedetta e la figlia Anna di 11 anni che ne era
morta, ci lasciò un racconto reale della drammatica situazione che si
viveva ("Venetia città nobilissima et singolare con le aggiunte
di G. Martinoni", Venezia 1663).
Al Lazzaretto Nuovo venivano inviate le persone sospette e se il contagio
veniva accertato erano trasferite al Lazzaretto Vecchio; al Lazzaretto
Nuovo giungevano da quello vecchio anche le persone guarite dalla malattia.
Per tentare di purificare l'aria dal morbo si accendevano fuochi di legno
di ginepro che veniva fatto arrivare appositamente dall'Istria e dalla
Dalmazia.
Sull'isola non potevano trovare posto tutte le persone che ogni giorno
arrivavano a migliaia. Così il Senato della Repubblica autorizzò che le
persone sospette o ammalate venissero ammassate su barconi ancorati nei
pressi delle due isole (il Lazzaretto Nuovo e quello Vecchio). Vennero
così approntate due o tremila barche di ogni tipo cariche all'inverosimile
di contumaci.
Sansovino descrive questa sorta di girone infernale come «...un'armata
che assedi una città di mare...»
Scritte
sui muri lasciate all'interno del "Tezon grande" del
Lazzaretto Nuovo, tracciate nell'estate 1585 dagli addetti
all'espurgo delle merci e dai contumaci posti in quarantena.
In questa si legge anche una notizia di cronaca: la morte del
Doge Nicolò da Ponte e la nomina a nuovo Doge di Pasquale
Cicogna. «...il ser.mo pri.e Nicholo da Ponte paso de questa
vita alaltra et di 18 agosto fu fato principe il cl.mo sig.r
Pasqual da cha Cicogna...» ("Il Serenissimo Principe
Nicolò da Ponte passò da questa vita all'altra ed il 18
agosto fu fatto Principe il clementissimo signor Pasquale di
casa Cicogna").
Scavi
al Lazzaretto Nuovo di Venezia, nella zona del cimiero.
Uno
scorcio del cinquecentesco
"Tezon grande" ("tezon" si pronuncia
"tesòn" con la "e" larga e la
"z" dolce quasi come la "s" di "casa")
del Lazzaretto Nuovo. In dialetto veneziano con "teza"
si identifica un semplice tetto, o tettoia, fatto in un
luogo aperto, dove si ripongono il fieno o gli attrezzi
agricoli. Nel "Tezon grande" del Lazzaretto Nuovo
(lungo cento metri) venivano tenute le merci
"suscettibili" (sospette) da assoggettare a
decontaminazione provenienti da "luoghi sospesi",
cioè da luoghi per i quali vi era notizia di epidemie. Le
grandi arcate furono chiuse quando il complesso venne
destinato a scopi militari.
Il Lazzaretto Nuovo mantenne la sua funzione fino al XVIII secolo. L'isola
venne poi espropriata in periodo napoleonico, indemaniata e quindi adibita
nel tempo a funzioni militari: deposito, caserma e polveriera.
Dopo il periodo austriaco (durante il quale era stato trasformato in
"piazzaforte militare"), restò presidio militare con il Regno d'Italia
fino alla Repubblica, quando l'isola venne dismessa
dall'esercito italiano nel 1975.
Il Lazzaretto Nuovo è stato quindi tutelato e vincolato dal Ministero per
i Beni Culturali e dal 1977 è stato dato in concessione ad
un'associazione di volontariato (l'Ekos Club) per la sua conservazione e
rivitalizzazione.
Qui si svolgono numerose campagne di scavo e di studio, campi archeologici
estivi, attività didattiche e di ricerca.
Tra la fine del 2006 ed il 2008 sono stati condotti degli scavi dal gruppo
del dottor Matteo Borrini dell'Università di Firenze con il Laboratorio
di archeopatologia per le indagini sulla peste, l'Archeclub Italia con il
Gruppo Archeologico Spezzino.
Gli scavi hanno interessato la zona del cimitero dove le sepolture vennero
fatte abbastanza caoticamente. Infatti nel Lazzaretto Vecchio esistevano
fosse comuni preordinate nelle quali inumare i cadaveri dei morti di
peste; al Lazzaretto Nuovo, pensato solo come luogo di contumacia per
uomini e merci, nei momenti di emergenza le vittime del morbo furono seppellite
disordinatamente. Poteva così capitare che per approntare nuove sepolture
si andasse a scavare in un luogo dove già erano stati in precedenza
deposti altri cadaveri.
Come deve essere successo al cadavere "ID 6" scoperto da Matteo
Borrini, ritrovato con un mattone conficcato profondamente nella bocca al
punto di spaccare denti e mascelle.
Lo
scheletro di donna identificato come "ID 6" rinvenuto
durante gli scavi al cimitero del Lazzaretto Nuovo di Venezia.
Si tratta del cadavere di una donna.
Ma cosa aveva fatto la poveretta per subire da morta questa terribile
profanazione del proprio corpo?
Dobbiamo fare un passo indietro e pensare a quelle che erano le convinzioni
e le credenze legate alla peste ed alle pandemie. Basta rileggere i
"Promessi sposi" del Manzoni ai capitoli 21° e 22° dove
troviamo, tra le cause di pestilenza, le «...emanazioni autunnali delle
paludi...», l'opera degli untori, «...arti venefiche, operazioni
diaboliche...» fino a quei medici che ne negavano l'esistenza avendo «...pronti
nomi di malattie comuni per qualificare ogni caso di peste che fossero
chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse
comparso...».
Se queste erano le conoscenze che si avevano nel Seicento, si può
immaginare quanto più scarse erano due secoli prima.
Il terrore per il morbo, a livello popolare, era sostenuto dalla fede: dalla
credenza di un castigo divino che si scagliava secondo provvidenza e
giustizia contro le malefatte dell'umanità, procurando dolori, sofferenze e
morte ad espiazione dei peccati dell'uomo.
In Polonia, in particolare nella regione della Kashubia, già nel XIV secolo
si era diffusa la credenza popolare dello Nachzehrer, un tipo di
vampiro il cui nome può essere tradotto come "divoratore della
notte" o anche "masticatore di sudario".
Lo Nachzehrer sarebbe un "quasi-morto", un essere che non
riuscirebbe a morire ma che contemporaneamente non riuscirebbe neppure a
trasformarsi totalmente in vampiro.
Avvolto nel sudario dentro la tomba, in una specie di torpore, lo Nachzehrer
masticherebbe la tela che lo avvolge, i propri vestiti e le proprie mani e,
nel caso, anche eventuali cadaveri vicini. Secondo alcune varianti della
leggenda, lo Nachzehrer sarebbe in grado di assorbire le energie
vitali degli individui che gli sono vicini, fortificandosi fino a
riemergere dalla tomba e diventare un vampiro.
La credenza si sviluppa a seguito dell'osservazione delle esumazioni di
cadaveri relativamente recenti, come poteva succedere durante le pestilenze
quando era necessario riaprire fosse comuni per seppellire nuovi morti.
Il
cranio della donna ritenuta una "non-morta", o vampiro, o
"Nachzehrer", del Lazzaretto Nuovo di Venezia, con il
mattone conficcato in bocca per impedirle di nutrirsi e ritornare in
vita.
A quel tempo si conoscevano le caratteristiche che assumeva un cadavere
immediatamente dopo la morte (rigidità muscolare, raffreddamento), ma
tutte le successive modifiche che subiva il corpo erano nascoste dalla
sepoltura: infatti generalmente la riapertura della tomba avveniva dopo
molti anni, quando il corpo si era ormai ridotto a scheletro.
Ma prima di diventare scheletro il cadavere subisce le trasformazioni
legate alla decomposizione: i gas putrefattivi gonfiano il corpo,
fuoriescono dei liquami, la pelle si stacca per epidermolisi (ad esempio dalle
mani e dai piedi).
Ecco dunque come poteva apparire un cadavere seppellito da pochi mesi
riaprendo una fossa comune per far spazio ai corpi di nuove vittime della
peste.
Così tutti questi segni che venivano rilevati su questi cadaveri
avvaloravano la credenza dei Nachzehrer: i sudari macchiati dai
liquami corporei in corrispondenza della bocca, che a volte potevano
risultare bucati per effetto dell'acidità, si adattavano al
"masticatore di sudario". La pelle scollata dalle mani dava
l'impressione che il Nachzehrer si fosse mangiato le mani. Il corpo
deformato, ma non ancora divenuto scheletro, confermava la presenza di un
"quasi-morto" che cercava di nutrirsi per fortificarsi e
diffondere il morbo.
Questo è quello che dovette avvenire al Lazzaretto Nuovo di Venezia, per
lo scheletro "ID 6" scoperto dall'équipe del dottor
Matteo Borrini.
In un momento di crisi sanitaria, presumibilmente tra il XV ed il XVI
secolo, durante lo scavo per una nuova sepoltura, nel cimitero del
Lazzaretto Nuovo, i necrofori si imbatterono in una tomba recente.
Il corpo della donna con ogni probabilità non risultava decomposto ed
aveva l'apparenza di un corpo integro, di un "non-morto". Per la
pressione esercitata dai gas putrefattivi il corpo era gonfio: così quel
gonfiore del ventre, magari unito a fuoriuscita di sangue dall'addome e
dalla bocca, a macchie sanguinolente nel sudario, poté indurre i
necrofori a credere di trovarsi davanti ad un vampiro che si nutriva del
sangue degli altri morti per raccogliere le forze, uscire dalla tomba e
propagare il contagio.
Era dunque necessario impedirgli di cibarsi. In altre tradizioni per far
questo si ricorreva al classico paletto conficcato nel cuore, qui a
Venezia invece si pensò, dopo aver tolto il sudario dalla bocca, di
riempirla con della terra e di conficcare con forza un mattone nella
bocca.
La donna, la "non-morta", il vampiro, non avrebbe più potuto
masticare e nuocere.
E così fu fatto.
Il
cranio della donna vampiro con il mattone in bocca per impedirle di
continuare a nutrirsi.
Ricostruzione
grafica dello scheletro "ID 6" con il mattone conficcato
violentemente e profondamente nella bocca.